Poesia e delusioni generazionali, secondo Roberto Bolano

Maria Paiato al Teatro Metastasio nelle vesti della Poesia, fra luci e ombre della poco convincente drammaturgia latinoamericana contemporanea.

08 febbraio 2015 11:16
Poesia e delusioni generazionali, secondo Roberto Bolano

PRATO - L’America Latina è terra di visioni, di continue sovrapposizioni fra il quotidiano e lo straordinario, l’onirico e il reale, l’ortodosso e l’eretico, costantemente e drammaticamente in bilico fra il bene e il male; su queste sovrapposizioni si è in larga parte formato il carattere dei suoi popoli, e ciò spiega le vicissitudini sociopolitiche di un Continente non ancora compiutamente sviluppato. A raccontarle, una letteratura e una drammaturgia imbevute di questa tendenza all’onirico, che tira fuori l’anima di questa terra ma non riesce a scuoterne le coscienze, impantanata com’è nel fatalismo e nell’autoindulgenza. A queste tendenza non sfugge nemmeno la produzione dello scrittore cileno Roberto Bolaño (1950 - 2003), del quale Riccardo Massai ha allestito Amuleto, spettacolo tratto dall’omonimo romanzo.

Una donna, Auxilio Lacouture - sopravvissuta ai massacri e ai rastrellamenti avvenuti all’Università di Città del Messico nel settembre del ’68 -, racconta la sua strana storia, quella di una ragazza giunta nella capitale messicana da Montevideo, circa tre anni prima. I motivi? Forse l’amore, forse la pazzia della gioventù, forse lo spirito d’avventura, forse tutti e tre i motivi insieme. S’inserisce nell’ambiente dell’università, e insieme frequenta gl’intellettuali, in particolare lo scrittore e poeta Arturo Belano (alter ego dello stesso Bolaño), e il poeta Pedro Garfias. È per loro una sorta di madre consolatrice, amica, musa ispiratrice, compagna di letto, faccendiera a tempo perso, e per questo motivo si ritiene la madre della poesia latinoamericana. Una mitomane, ma solo in parte.

Maria Paiato, interprete di questo monologo, regge discretamente bene la scena per i primi due terzi dello spettacolo, stagliata su un palcoscenico semibuio, dallo sfondo completamente nero. È, il suo, il racconto di chi ha vissuta l’ultima stagione dorata della creatività artistica in America Latina, in quella metà degli anni Sessanta in cui era ancora viva l’illusione del cambiamento, a seguito dell’affermazione castrista a Cuba; erano gli anni di una generazione ancora vocata all’idea per cui la creatività dovesse essere legittimata dalla ricerca, dallo studio, dalla fatica quotidiana.

Pur in mezzo a sregolatezze di vita, Garfias e Belano - controfigure di mostri sacri quali Borges, Neruda, Machado de Assis -, sanno che la poesia, e l’arte in senso lato, devono trovare una cornice di coerenza e di buon gusto, estetico e intellettuale. Un pensiero che si basa su una precisa scala di valori. Ma quel modo d’intendere l’arte sta vivendo i suoi ultimi giorni. Per i giovani degli anni Sessanta, tutto sarà diverso.

In mezzo c’è quella linea di demarcazione che è stato il 1968, a Città del Messico come a Parigi, Roma e New York. Dopo, niente potrà essere più come prima. La violenza di piazza diventa una sorta di modus operandi, o di forma mentis, che avvelena persino la dialettica fra le generazioni. La contestazione è elemento imprescindibile, più o meno a proposito; e in questa ansia di distruggere il passato, non ci si è preoccupati di ricostruire il futuro. Quale generazione è uscita, una volta diradatosi il gas lacrimogeno?

La impersona il tronfio, squallido, degradato, pittore Carlos Coffen Serpas, figlio di una madre attivista rivoluzionaria che poco si è occupata di lui. È una generazione sola, questa, che sfugge alle proprie paure cercando rifugio nell’alcol, negli stupefacenti, nell’urlare una rabbia incontrollata. Stili di vita che si ripercuotono anche sulla qualità artistica di quadri, poesie, libri. Come annuncia all’inizio l’esaltata Auxilio, “si tratta della storia di un crimine atroce”. In quel giorno di settembre, nella violenza degli scontri di piazza, fu uccisa la poesia; un’affermazione da intendere in senso molto ampio: morì la poesia della vita, ovvero quell’approccio romantico, a tratti un po’ ingenuo, però intellettualmente onesto e intellettualmente profondo, vero l’esistenza. Dopo, solo frustrazioni, violenze e nostalgie, non soltanto in America Latina.

Bolaño racconta tutto questo, vi riflette con acutezza, ma lo fa con quel fatalismo che caratterizza il pensiero latinoamericano dell’ultimo mezzo secolo e per questa ragione il testo perde molta della sua potenziale incisività.

Rigurgitante d’immagini, urla, interni d’autore, il pregio dello spettacolo è quello di creare un effetto d’interessante contrasto fra la scenografia - incentrata sulla vuotezza del palcoscenico e lo sfondo completamente nero -, e il fiume di parole che sgorga dalla bocca della Paiato e dalla penna di Bolaño, che costruisce nel buio un tappeto visivo intriso dei demoni e dei numi tutelari sudamericani, quasi una sorta d’immaginario murales di Diego Rivera.

La terza e ultima parte del monologo - ripetitiva e inutilmente lunga -, toglie buona parte di questa magia che pure si era creata; in quella che è una visione (non sappiamo indotta da cosa), Auxilio apparenta la morte della poesia (e per metafora di tutti i giovani poeti), alla mitologica ecatombe di Oreste, cui sopravvive soltanto la sorellastra Erigone. Così come Auxilio è adesso l’unica sopravvissuta. Ma forse, proprio da lei potrà rinascere l’arte creativa come la si intendeva un tempo, una nascita immaginata come la marcia compatta dei poeti verso l’abisso, da dove risorgere come una sorta di Araba Fenice, al grido “el pueblo unido jamás será vencido”, un grido ormai logoro e anacronistico.

È l’immagine di un’America Latina fragile e patetica, non ancora politicamente e socialmente matura, che si affida a pochi isolati personaggi/condottieri, come Che Guevara, citato forse a sproposito e in maniera forzata, a proposito delle sue capacità sessuali. E ancora, una generazione delusa, incapace però di fare i conti con la propria leggerezza.

Dopo il rapido doppio passaggio di Spregelburd, che aveva suscitata più di una perplessità, anche il testo di Bolaño conferma la debolezza della drammaturgia latinoamericana contemporanea, nostalgica e fatalista oltremisura, e priva di forti istanze di rinnovamento. E lascia una certa amarezza vedere registi andare in cerca di autori stranieri, quando in Patria abbiamo intelligenti e talentuosi autori, contemporanei e non, quasi completamente dimenticati, basti citare Luciano Bianciardi, Carlo Gozzi, Giovanni Testori.

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