DOSSIER

Il Petrolchimico di Brindisi (1969-1972)

di Tatiana Schirinzi

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3. La situazione nello stabilimento

La Montedison aveva a mio avviso tre tratti fondamentali, dai quali scaturivano le principali problematiche, le situazioni caratteristiche: era uno stabilimento chimico, era di grandi dimensioni e costituiva un "polo di sviluppo".

3.1. Le peculiarità della Montedison come stabilimento chimico

La Montedison di Brindisi era, come si è detto, uno stabilimento chimico e dunque la divisione del lavoro non assumeva quella crudezza che contraddistingue invece i grandi stabilimenti meccanici, non si concretizzava nell'alienazione massiccia ed immediata della catena di montaggio, ma piuttosto il lavoro in era caratterizzato da un qualche alone di attrattiva, complesso e articolato com'era21.

Il lavoro chimico era però contrassegnato, per contro, da un grado elevatissimo di pericolosità e di nocività. Gli impianti, partendo dalle frazioni leggere del petrolio, attraverso successive trasformazioni, producevano tutte le principali materie plastiche, come il MOPLEN, il polipropilene e il policloruro di vinile o PVC: quasi tutte le lavorazioni effettuate nello stabilimento portavano a contatto con elevate concentrazioni di elementi e composti che erano per la salute dei lavoratori da sia ad elevato rischio immediato - dal momento che problemi di funzionamento degli impianti che avessero reso le concentrazioni più elevate avrebbero portato anche a morte rapida - sia corrosivi, perché creavano subito vari problemi oppure andavano a ledere ed indebolire in vari modi l'organismo, determinando o facilitando l'insorgenza di successive letali malattie.

Alcuni reparti erano particolarmente noti per le problematiche che creavano, come il P21 o il P9, noti per aver reso sordi molti operai22 - il problema della sordità non era comunque peculiare solo dell'industria chimica -, il P13 che lavorava il cloruro di vinile, la cui capacità di generare tumori si sarebbe appresa solo dopo, il P2T o il leggendario P12, l'impianto cloro-soda "ammazzauomo"23, sul quale, per le sue caratteristiche uniche e al tempo stesso emblematiche, spenderemo qualche parola.

Questo reparto era sempre al primo posto nella graduatoria degli indici infortunistici e delle malattie professionali24. Il P12 riceveva la "salamoia", una soluzione di acqua e cloruro di sodio, da un altro reparto e produceva il cloro attraverso l'elettrolisi, condotta con l'utilizzo di celle a mercurio, e con l'ammoniaca, la soda e altri composti: lavorarci comportava quindi una continua esposizione a sostanze dalla fortissima tossicità. Il cloro era, ed è, un gas fortemente irritante per le vie respiratorie, le mucose, gli occhi: provocava fotofobia, congiuntiviti, cefalee, tosse, bronchiti. Superata la concentrazione di mille parti per milione, diventava immediatamente fatale, ma l'esposizione acuta ad alte, sebbene non letali, concentrazioni poteva dare luogo al doloroso edema polmonare; inoltre l'esposizione cronica a bassi livelli di quest'elemento indeboliva i polmoni, rendendoli vulnerabili ad altre malattie. Il mercurio, elemento dalla tossicità mitologica, creava poi disturbi ancora più insidiosi. Questo, a causa dell'elevata temperatura presente nel reparto, evaporava e veniva assimilato dai lavoratori, per inalazione e per contatto, rendendoli peraltro, allorché non si lavassero e cambiassero d'abito completamente, portatori di tossicità all'esterno. Il mercurio penetrava lentamente nei tessuti e nelle cellule e, andando a colpire più gravemente le cellule non soggette a ricambio, ovvero quelle nervose, si accumulava nel cervello, nel fegato, nelle reni e provocava tremori, convulsioni, cefalee nonché depressione, irritabilità, insonnia, cretinismo. Il reparto peraltro risultava mal costruito dall'inizio, ma la sua situazione peggiorò col passare degli anni, in seguito ad innovazioni tecnologiche che aumentarono il carico col quale viaggiava e acuirono il problema del surriscaldamento.

La nocività del P12 era riconosciuta e ben nota, tanto che questo era utilizzato come "reparto di confino", nel quale venivano inviati i lavoratori più polemici, sindacalmente più attivi e che quindi serviva anche da minaccia perenne per i lavoratori tutti25.

Il problema della nocività era dunque già certamente avvertito nel periodo che prendiamo in considerazione: si erano infatti già manifestati, a circa dieci anni dall'avviamento degli impianti come, problemi molto gravi ed erano diffuse le denunce e le proteste. Tuttavia, il problema non si era rivelato nella sua interezza, né nella sua gravità. Un segnale significativo in questo senso ci viene ancora dal P12 e precisamente da una lettera indirizzata dagli operai del reparto alla Commissione Interna, in cui si chiedeva un intervento di questa presso la direzione per un miglioramento dell'aerazione - divenuta pessima proprio in seguito ai cambiamenti tecnologici di cui sopra - affinché "[fosse possibile] lavorare, [gli operai], tranquillamente, e la società trarne un maggior profitto"26.

Peraltro proprio in questi anni, come vedremo più avanti, col contratto del 1969 e quello del 1972 si faranno molti passi nel senso di una presa di coscienza e di una migliore comprensione del problema della situazione ambientale, ma ci appare tuttavia chiaro che il petrolchimico nel suo complesso e per le specifiche feroci malattie che generava, non venisse visto per la reale piaga, fonte continua di infermità e morte, che era.

3.2. Il paternalismo impersonale da grande impresa

La Montedison era d'altro canto un grande impianto e dunque le forme di controllo degli operai non erano quelle tipiche dell'impresa medio-piccola: il controllo era qui più impersonale, passava per la timbratura del cartellino, per la gerarchia intermedia e per un paternalismo che non si poggiava sulla conoscenza diretta tra la direzione e le maestranze - né dunque sull'idolatria per la prima da parte delle seconde - ma che dispiegava comunque i suoi tradizionali mezzi. Molti degli operai non conoscevano fisicamente il direttore e il capo del personale27 ed era solo attraverso la gerarchia intermedia, quella "a livello di Capetto"28, ovvero dei capi reparto e degli assistenti tecnici, che il paternalismo si personificava. Erano i capetti che esercitavano la pressione più costante e diretta nei confronti degli operai, affinché i ritmi fossero sempre sostenuti e gli atteggiamenti non conflittuali: unicamente da questi dipese peraltro a lungo l'attribuzione delle qualifiche, cosa che rende evidente quale potesse essere l'entità di questa pressione.

Inoltre l'azienda, pur nel quadro di questo paternalismo impersonale, dispiegava i propri mezzi, di ormai secolare diffusione, del paternalismo classico: i premi in denaro, le case per gli operai e le villette per i dirigenti, il dopolavoro, lo spaccio.

Lo spaccio/bottega in realtà divenne conveniente solo dopo molti anni dall'avviamento della fabbrica: per un lungo periodo infatti non venne utilizzato, come avrebbe potuto essere, per aumentare il potere d'acquisto dei dipendenti dello stabilimento, ma piuttosto fu prevaricante l'aspetto dell'assegnazione clientelare della sua gestione. I concessionari di questa assegnazione, forti dei legami attraverso i quali l'avevano ricevuta, praticavano infatti prezzi molto alti, per trarre dall'attività il maggior ricavo possibile29.

Le case, costruite pure per reali necessità, in particolare durante i primi anni di vita dello stabilimento in cui bisognava ospitare le maestranze provenienti da fuori regione, si rivelarono invece un ottimo strumento di ricatto, pressione, accaparramento di benevolenza. Il villaggio della Montedison tuttavia non diede mai vita ad un nucleo organico, totalizzante, che per gli operai andasse a costituire tutto l'orizzonte, come in altre esperienze.

Il dopolavoro infine fu oggetto di continue e dure critiche, principalmente per due ordini di motivi. Innanzitutto la direzione veniva criticata dalle organizzazioni sindacali per aver posto il CRAL vicino alla fabbrica, costringendo gli operai che vi si volessero recare ad avere l'impressione di "ritornare la sera in fabbrica"30, mentre sarebbe stata molto apprezzata la sua ubicazione in città, in modo tale da rendere realmente il dopolavoro un luogo d'incontro, libero, ricreante. In questo senso è evidente come non fosse quello il tempo né il luogo - Brindisi aveva peraltro altre forme capillari e diffuse di socialità maschile - per una esperienza alla villaggio operaio totalizzante. In secondo luogo l'altra serie di critiche ruotava intorno ad una sorta di preferenza che veniva accordata agli sport meno popolari e più elitari come il tennis o il tiro a volo, disdegnando quelli più familiari per gli operai dello stabilimento, come il calcio31.

3.3. La Montedison come "polo di sviluppo"

Il petrolchimico di Brindisi costituiva infine uno dei famigerati "poli di sviluppo" del secondo dopoguerra italiano. Questo veniva a significare in primo luogo che il complesso industriale aveva la caratteristica di essere calato dall'alto in una zona ad alto tasso di disoccupazione, e dunque con una forza lavoro ad elevato tasso di ricattabilità. La conseguenza fu una forte commistione del male endemico del clientelismo con tutti gli aspetti della vita della fabbrica: il clientelismo ebbe a che fare, come si è già detto, con le assunzioni, con le prassi dei sindacati e persino con la gestione dello spaccio aziendale.

Il fatto che lo stabilimento brindisino costituisse un "polo di sviluppo" veniva poi a significare, in secondo luogo, che la quasi totalità della fascia dirigenziale superiore e una parte di quella intermedia era di provenienza esogena: in particolare arrivava dal Nord, ovvero dalla presunta zona più sviluppata del paese. L'arrivo di questi dirigenti aveva dunque dato vita ad un fenomeno, seppur piccolo, di contro-emigrazione, con tutte le caratteristiche del caso. L'incontro-scontro tra due modi di vivere diversi, tra due culture, o semplicemente tra sconosciuti diede infatti vita a problemi di adattamento per chi proveniva da fuori, che soffriva per una certa mancanza di "modernità" - concretizzata ad esempio nella prevalenza di piccoli negozi al dettaglio rispetto ai supermercati - o per un'eccessiva espansività, seppure benevola, dei brindisini33. Questi problemi di adattamento sfociavano talvolta in aperto razzismo nei confronti delle maestranze di provenienza endogena, che sommato al classico atteggiamento di superiorità nei confronti dei sottoposti, portava i quadri intermedi a considerare i lavoratori arretrati, stravaganti, sottosviluppati33. Il razzismo in verità fu un problema piuttosto sentito solo nei primi tempi della vita dello stabilimento, dal momento che fu quello il periodo in cui erano più numerosi gli arrivi di personale qualificato dal Centro e dal Nord Italia e probabilmente maggiori erano a quel tempo la quantità di pregiudizi di questi, come pure minore in generale l'integrazione tra le due culture. Nel periodo da noi esaminato questo aspetto appariva sostanzialmente superato, seppure si presentava ancora qua e là, quando si riverificava l'arrivo, per il montaggio di nuovi impianti ad esempio, di personale da altre zone34.

3.4. Le organizzazioni sindacali ed i loro organismi

Il sindacato a Brindisi visse nei primi anni '60 una burrascosa trasformazione: da un tipo di organizzazione dei lavoratori prevalentemente bracciantile - dal momento che il tessuto artigianale esistente non era sindacalizzato35 - si passò vorticosamente ad un sindacato delle varie categorie delle industrie. La categoria dei lavoratori chimici a Brindisi nacque in particolare proprio con il petrolchimico e per molti anni le organizzazioni sindacali dei chimici avevano come unico orizzonte gli stabilimenti Montecatini: era unicamente, o in modo nettamente prevalente, da lì che traevano iscritti e lì che operavano.

La Montecatini, e dunque la categoria dei chimici a Brindisi, ebbe fino alla fine degli anni sessanta un grado di sindacalizzazione piuttosto basso36. Vi era in quelli anni, all'interno di questo quadro, una grossa predominanza della FEDERCHIMICI-CISL, governata a livello locale da una componente moderata, che traeva la sua forza dalla gestione delle assunzioni ed era molto vicina alla direzione aziendale; vi era poi la UIL-CID che era segnata fino al 1969 da una gestione che non riusciva a trovare in fabbrica un proprio spazio e a caratterizzarsi, e si presentava in sostanza poco combattiva, seppure non mescolata al padronato e dotata di una certa costanza37; infine la FILCEP-CGIL (poi FILCEA) era totalmente assente all'inizio e trovò il suo spazio e il suo radicamento via via, partendo dal basso, e subendo nei primi anni della sua vita alla Montecatini una forte stigmatizzazione, indicata come sindacato "antidemocratico". Vi era infine la CISNAL, legata al MSI cittadino, molto piccola e sempre strenuamente filoaziendale, e alcuni "sindacati gialli", dalla vita probabilmente effimera, ma sui quali purtroppo non disponiamo di informazioni.

All'interno della fabbrica il sindacato viveva essenzialmente attraverso la Commissione Interna: questa ebbe un qualche ruolo nel corso degli anni '60 come agente contrattuale in merito ad alcuni temi come la monetizzazione della nocività, i miglioramenti salariali extra-contrattuali, la ristrutturazione dell'orario di lavoro, ma si svuotò progressivamente di significato e di ruolo. I membri della CI avevano spesso rapporti personali con la direzione e pochissimi rapporti con i lavoratori38. Vi erano inoltre delle sezioni sindacali aziendali della CISL e della CGIL, presumibilmente le prime da subito, le seconde dal 1963 in poi, e solo dal 1969 arrivò anche una sezione della UIL: i comitati direttivi di queste coincidevano in quanto a membri con le segreterie provinciali delle federazioni di categoria. Le organizzazioni sindacali tenevano comunque i contatti con i lavoratori attraverso il volantinaggio fuori dalla fabbrica e con la distribuzione della propria stampa periodica: questo avvenne sempre, seppure come si vedrà più avanti le forme di comunicazione esplosero nel periodo a cavallo dell'autunno caldo.

Tra le sezioni sindacali aziendali e la commissione, via via che questa si svuotò di significato, i rapporti si allentarono: la CI si configurava dunque sempre più come un organismo con vita propria, altamente burocratico, privo di senso, seppure formato attraverso libere elezioni. Ecco i risultati di queste elezioni, che vedevano, nel corso degli anni '60, la partecipazione di circa seicento lavoratori per tornata, tra operai e impiegati, su un totale di circa quattromila, vedevano i seguenti risultati per quanto riguarda le maestranze operaie: la CISL era assestata sui quattro o cinque seggi; la CGIL - che per i primi due anni, è da notare, non presentò affatto liste - otteneva solitamente uno o due seggi, ma per ben due volte, nei momenti di intensa lotta, ovvero nel 1964 e nel 1969, ne ottenne ben quattro; la UIL rimaneva sostanzialmente ferma sui due seggi; la CINSAL, che presentò una propria lista solo a partire dal 1965 otteneva, con l'eccezione del primo anno in cui ne ottenne due, ogni anno un seggio. Quanto alle elezioni di commissione interna per gli impiegati ogni anno la CISL e la UIL ottennero un seggio, mentre né la CGIL né la CISNAL ottennero mai alcun seggio. Quanto detto fin ora vale per gli operai "centrali", i chimici assunti direttamente dalla Montedison: gli operai degli appalti, assunti in gran parte dalle varie imprese appaltatrici con il contratto metalmeccanico, di fatto sembrano aver condotto un'esistenza a parte. Abbiamo pochissimi dati a disposizione sulla loro sindacalizzazione o sulle loro lotte e da quei pochi ricaviamo soltanto che non c'era saldatura tra le due realtà: i metalmeccanici non partecipavano alle lotte contrattuali dei chimici e le federazioni di categoria dei chimici nella loro stampa periodica ignoravano quasi completamente la presenza, pur copiosa, di questi lavoratori. L'argomento necessiterebbe certamente una più approfondita indagine.



21. Cfr. D. Urgesi, Le forme della coscienza operaia, cit., p. 3.

22. G. Fiorentini, C'è davvero sicurezza nei grandi stabilimenti industriali?, in "Collaborazione e dialogo", 1972, n. 1., p. 35 e Difendiamo la nostra salute, in "CdF", novembre 1973, p. 2.

23. P. Merola, P12 un impianto ammazzauomo, in "Fabbrica nuova", giugno 1973, p. 2.

24. M. Stefanelli, Settore chimico e organizzazione della classe operaia, cit., p. 119 e Difendiamo la nostra salute, in "CdF", novembre 1973, p. 2.

25. M. Stefanelli, Settore chimico e organizzazione della classe operaia, cit., p. 101 e "CdF", novembre 1973, p. 2.

26. Lettera citata in M. Stefanelli, Settore chimico e organizzazione della classe operaia, cit., p. 101. Cfr. a questo proposito anche La salute non ha prezzo in "Collaborazione e dialogo", 1972, n. 2, p. 39.

27. "Il Ventisette", giugno 1969, p. 4.

28. Espressione utilizzata da un operaio in una lettera al giornale, pubblicata su "Il Ventisette", maggio 1969, p. 2.

29. I fessi arricchiscono il sig. Spinelli e chi lo protegge, in "Il Ventisette", marzo 1970, p. 9.

30. N. Pacifico, Il CRAL aziendale ovvero la mafia ricreativa, in "Il Ventisette", settembre 1970, p. 2.

31. Cfr. ad esempio R. Cotrino, Il CRAL fa il doppio gioco e snobba il calcio, in "Il Ventisette", marzo 1970, p. 5.

32. E' quanto emerge dalla già citata inchiesta televisiva svolta nel 1962 dal programma Viaggio nell'Italia che cambia, cit. in F. Anania, Cinegiornali, radio, televisione, cit., p. 526.

33. Cfr. "Il Ventisette", maggio 1969, p. 3 e "Il Ventisette", settembre 1969, p. 3.

34. Ibidem.

35. La cosa meriterebbe un'analisi più approfondita. I salariati dell'artigianato a fine Ottocento in realtà erano sindacalizzati ed è da verificare come operò il fascismo su questo tipo di organizzazioni.

36. La ricostruzione sulla presenza delle varie OO. SS. in quegli anni e delle differenze tra queste la devo soprattutto a R. Apruzzi, Sviluppo capitalistico e organizzazione sindacale a Brindisi, cit.

37. "Collaborazione e dialogo", 1973, n.1-2, pp. 9-10 e R. Apruzzi, Sviluppo capitalistico e organizzazione sindacale a Brindisi, cit.

38. Cfr. ad esempio M. Stefanelli, Settore chimico e organizzazione della classe operaia, cit., p. 94.


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