DOSSIER

Il Petrolchimico di Brindisi (1969-1972)

di Tatiana Schirinzi

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4. Il lungo autunno caldo

4.1. Preambolo: le lotte dei primi anni '60

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Il lento radicarsi della sindacalizzazione e le difficoltà di partenza non impedirono l'ampia partecipazione dei lavoratori del petrolchimico di Brindisi alle lotte del decennio: vi furono durissimi scioperi con grandi quantità di adesioni per il rinnovo del contratto nel 1964, coronati da un comizio di Vittorio Foa nel quartiere Perrino, una zona popolare adiacente all'area del petrolchimico; si verificarono ampie lotte a sostegno dell'occupazione nel triennio 1965-1967; nel 1966 occuparono la scena i conflitti per la diminuzione dell'orario di lavoro e ancora per il rinnovo contrattuale.

Nel 1967 prese vita infine un corposo fermento, fatto oltre che di scioperi, di iniziative, di congressi, di pubblicazioni che teorizzarono in modo più accurato la "condizione operaia", il ruolo degli operai nella società tutta, che gettarono luce sulla nocività e inquadrarono questa e altre forme di disagio come insostenibili: questo fermento sfociò poi nella grande ondata di lotte dell'anno successivo per l'abolizione delle zone salariali.

4.2. Il memorabile sciopero dei sei giorni

Tra le rivendicazioni che si fecero più pressanti nel corso del 1968 vi fu quella per il riassetto zonale, ovvero per l'abolizione delle cosiddette "gabbie salariali". Brindisi si ritrovava infatti incasellata da questo sistema al livello retributivo più basso, valutata com'era come zona agricola, dal basso costo della vita: in realtà il costo della vita era lievitato, anche proprio in seguito all'apertura del polo di sviluppo, e il sistema appariva quanto mai ingiusto. I lavoratori chiedevano in sostanza una retribuzione più alta, parificata a quella di operai e tecnici con mansioni analoghe nelle altre industrie chimiche italiane. La rivendicazione era dunque concretissima.

La questione delle zone diede forte impulso alla lotta e ne modificò le prassi, rivitalizzandola. Furono organizzate infatti intorno a questo tema a partire dall'autunno del 1968 molte assemblee spontanee fuori dalla fabbrica, a cui partecipavano sia operai sindacalizzati che operai che non lo erano e da cui scaturivano proposte più dure, più radicali rispetto a quelle proposte in quel momento delle organizzazioni sindacali, che pure certamente condividevano l'obiettivo della protesta. Durante le assemblee prese forma un vero e proprio Comitato di Lotta, che coordinava il movimento, si occupava della propaganda e individuava le iniziative. Il comitato indisse il quasi leggendario, durissimo, sciopero dei sei giorni, dal 31 gennaio al 5 febbraio del 1969, attuato contro il parere dei sindacati, che a questo avrebbero preferito uno sciopero articolato. Nel primo giorno di sciopero gli operai non permisero neppure alla cosiddetta "comandata" di entrare in fabbrica: anche questo fu deciso contro il parere dei sindacati. La "comandata" era quel gruppo di lavoratori, il cui numero era pattuito con la direzione, che rinunciava allo sciopero per garantire la sicurezza degli impianti: gli operai però erano convinti che la comandata garantisse di fatto una marcia degli impianti al 50% di produzione. Questa pratica era dunque osteggiata, perché capace di vanificare gli scioperi, seppure non rigettata sempre, dato il suo reale collegamento con la questione sicurezza40.

La vicenda del riassetto zonale si sarebbe poi conclusa di lì a poco, alla metà di marzo, con l'abolizione delle gabbie salariali, dilazionata però nel tempo, ma accolta con soddisfazione da tutte e tre le principali organizzazioni sindacali.

economiche, ma aveva anche introdotto nello stabilimento la novità dell'organizzazione spontanea, della protesta che nasce dal basso e si auto-organizza. Gli operai in lotta avevano da subito individuato due interlocutori: da un lato la direzione aziendale per i contenuti rivendicativi veri e propri, dall'altro le organizzazioni sindacali, per le quali questo nuovo modo di condurre la protesta doveva servire da monito e al tempo stesso da spinta per riconsiderare globalmente i propri metodi. "Arrabbiarsi contro alcuni dirigenti sindacali non è esatto, altrimenti dovremmo credere che cambiando questi, tutto si aggiusterebbe", recitava un volantino preparato per uno sciopero di fine gennaio41: il sindacato doveva cambiare le proprie prassi, doveva essere espressione della base e non più una guida distante, non più indire comizi di dirigenti sindacali, ma assemblee operaie nel quartiere popolare vicino alla fabbrica. Il comitato proprio in quest'ottica non voleva sostituirsi alle organizzazioni sindacali, non desiderava diventare un quarto (o quinto) sindacato, ma spingere questo ad agire con più forza, con più combattività ed onestà42.

Questa protesta rumorosa, vistosa e coinvolgente, tuttavia non riuscì ad allargare la propria visione rispetto all'obiettivo immediato che si era data. Non riuscì infatti a intrecciare la questione delle gabbie salariali con gli altri pesanti problemi della fabbrica, né ad inserirla in un'idea di società più ampia o a saldarsi con altre realtà che erano in quel momento in lotta. La protesta venne in verità in contatto con gli studenti - molto attivi nel brindisino in quel periodo, per esempio attraverso l'organizzazione del Circolo Lenin di Puglia - e l'incontro fu in qualche modo toccante e nuovo, ma la cosa non riuscì ad andare avanti a lungo. Gli studenti peraltro erano malvisti dai sindacalisti, che si sentivano dagli studenti stessi fortemente attaccati e ne percepivano le pratiche e i contenuti come distanti dai propri, eccessivi, vaghi43.

Gli agitatori della protesta spontanea finirono in definitiva piuttosto per confluire nelle organizzazioni sindacali, che ne uscirono più forti, e rinnovate. I sindacati aggiustarono il tiro della propria azione e si dotarono di nuovi vertici: in particolare nuove leve combattive emersero nella UIL e anche nella CISL, dove la componente moderata e clientelare fu messa da parte a favore di soggetti più giovani, con una diversa visione dell'azione sindacale, e la CGIL trasse vera linfa dall'esperienza, accogliendo al proprio interno le punte del movimento44.

4.3. Il contratto nazionale del 1969 e la contrattazione aziendale

Nei congressi nazionali delle federazioni dei lavoratori chimici delle tre principali organizzazioni sindacali, che si tennero in estate, si delinearono chiaramente quelle che sarebbero state le posizioni in vista del rinnovo della scadenza del contratto nazionale, prevista per il successivo novembre. I risultati dei tre congressi diventarono poi proposte presentate unitariamente alla controparte, all'inizio di settembre45.

La presentazione delle richieste fu tempestiva, proprio perché si voleva evitare il rituale periodo di vuoto contrattuale, che a volte nel era stato incredibilmente lungo. La piattaforma prevedeva che le rivendicazioni si sviluppassero sostanzialmente lungo due direttrici d'azione: una, quella della contrattazione nazionale che doveva essere già di per sé molto avanzata e costituire la base minima di ogni negoziazione e un'altra, quella della contrattazione aziendale, che doveva portare ad un ulteriore avanzamento di quelle condizioni, nonché calarle nel terreno specifico di ogni fabbrica. I punti principali della proposta sindacale vertevano sugli aumenti salariali, sull'orario di lavoro, sulle qualifiche, sulla parità normativa operai-impiegati, sui diritti sindacali, sull'ambiente di lavoro.

La presentazione delle richieste fu tempestiva, proprio perché si voleva evitare il rituale periodo di vuoto contrattuale, che a volte nel era stato incredibilmente lungo. La piattaforma prevedeva che le rivendicazioni si sviluppassero sostanzialmente lungo due direttrici d'azione: una, quella della contrattazione nazionale che doveva essere già di per sé molto avanzata e costituire la base minima di ogni negoziazione e un'altra, quella della contrattazione aziendale, che doveva portare ad un ulteriore avanzamento di quelle condizioni, nonché calarle nel terreno specifico di ogni fabbrica. I punti principali della proposta sindacale vertevano sugli aumenti salariali, sull'orario di lavoro, sulle qualifiche, sulla parità normativa operai-impiegati, sui diritti sindacali, sull'ambiente di lavoro. Gli aumenti salariali richiesti, col prevalere della linea della FILCEA, furono rigorosamente uguali per tutti, ovvero di dodicimila lire al mese, per stipendi che, con l'aumento di poco inferiore che poi in realtà si ebbe, alla Montedison di Brindisi arrivarono a oscillare per gli operai, a seconda della qualifica, dalle ottantotto alle centoventimila lire46. L'orario di lavoro avrebbe dovuto essere portato per tutti ad un massimo di otto ore giornaliere per quaranta ore settimanali e ridotto ulteriormente, tramite accordi aziendali, per coloro che lavoravano in particolari condizioni, ad esempio in ambienti insalubri o sottoposti a turni. La questione dell'orario veniva legata strettamente a quella degli organici, della difesa dell'occupazione: la riduzione effettiva dell'orario di lavoro era vista come l'unica via per far sì che i miglioramenti tecnologici coesistessero con un crescente impiego della manodopera, in un quadro in cui ad un continuo aumento della produttività non corrispondeva affatto un altrettanto forte aumento dell'occupazione. Per l'altro punto fondamentale, le qualifiche, considerate ­­- soprattutto dalla CGIL, meno dalla UIL e dalla CISL - il perno su cui la controparte poggiava la sua strategia di divisione della classe lavoratrice, si chiese l'abolizione delle categorie più basse esistenti, la quarta e la quinta, nonché la soppressione delle categorie speciali e dei discontinui e della differenza d'inquadramento per i minori d'età. Veniva richiesta inoltre, come si è detto, la parità normativa tra operai e impiegati in quanto a scatti d'anzianità, ferie, malattia, infortuni, provvedimenti disciplinari: le differenze fino ad allora esistenti erano sentite come insensate, oltre che odiose e umilianti. Riguardo ai diritti sindacali, si chiedeva l'estensione delle prassi democratiche alla fabbrica, ovvero il diritto di assemblea, il riconoscimento di particolari garanzie ai dirigenti sindacali in azienda, l'estensione della durata dell'aspettativa fino all'intera durata dell'incarico sindacale, il riconoscimento del diritto delle rappresentanze sindacali aziendali ad esercitare la contrattazione e un perfezionamento dei sistemi di riscossione della contribuzione sindacale. Per l'ambiente di lavoro infine si rigettava il principio della monetizzazione della nocività e ad esso si sostituiva quello della non ammissibilità delle lavorazioni nelle quali venissero superate le concentrazioni massime - stabilite a livello nazionale - di vapori, polveri, sostanze malsane. In generale si chiedeva anche una valutazione più complessiva e organica delle condizioni in cui operavano i lavoratori e la partecipazione delle strutture sindacali d'azienda alla ricerca e all'adozione delle misure ottimali per lavorare in sicurezza.

L'ondata di scioperi a sostegno del rinnovo del contratto fu durissima in tutta Italia e non mancò certamente di esserlo allo stabilimento di Brindisi. Il rinnovo del contratto finalmente arrivò il 12 dicembre del 1969 e, pur non esaudendo tutte le richieste della piattaforma, costituì comunque un grande e profondo successo. Il contratto non riuscì a sopprimere la quarta categoria operai, né le categorie dei minori e dei discontinui e soprattutto non riuscì a parificare l'inquadramento degli operai e quello degli impiegati. Tuttavia si ottennero l'aumento salariale desiderato - quasi per intero: si arrivò a undicimila lire in più al mese -, le quaranta ore settimanali da raggiungere attraverso una diminuzione progressiva, un aumento a tre settimane del periodo minimo di ferie e passò il criterio della partecipazione dei sindacati alla determinazione delle norme della sicurezza e quello della non ammissibilità delle lavorazioni nocive, anche se i livelli di concentrazione di sostanze dannose che le definivano come tali rimanessero indefinite, perché veniva demandato alle parti il compito di determinarle successivamente.

Soprattutto fu sancito, con l'abolizione della famigerata premessa contrattuale che stabiliva i limiti della contrattazione aziendale, il principio della contrattazione articolata, dando spazio a quella contrattazione aziendale migliorativa, che avrebbe spinto più in là tante delle conquiste di questo contratto e alla quale si demandava già nel CCNL ad esempio per quanto riguardava l'inquadramento all'interno delle categorie delle qualifiche.

La contrattazione alla Montedison si articolò, proseguì a livello di fabbrica per tutte le tematiche regolate dal contratto nazionale. Nell'inquadramento degli operai secondo le qualifiche si fecero più evidenti le differenze di punti di vista tra le tre principali organizzazioni sindacali: la FILCEA spingeva per un livellamento, per un appiattimento dei differenziali di categoria, mentre le altre due organizzazioni si orientavano diversamente. La UILCID dal canto suo aveva più volte, seppure mai in maniera radicale, polemizzato con l'egualitarismo assoluto, dichiarandosi più che altro favorevole ad una maggiore corrispondenza tra le qualifiche e le mansioni effettivamente svolte, mentre la Federchimici, anche per i residui legami clientelari con alcuni lavoratori, contrastava il livellamento. Dando luogo peraltro a forti contrasti tra la base e le organizzazioni sindacali - che diedero vita al fenomeno delle delegazioni spontanee di cui si parlerà più avanti - si procedette in sostanza riconoscendo di fatto ai lavoratori una qualifica maggiore rispetto alle mansioni svolte, sollevando il tetto categoriale ma mantenendo le distanze esistenti. La quarta categoria rimase di fatto solo per i fattorini e gli addetti alle pulizie47.

Riguardo all'orario di lavoro le RSA puntarono da subito ad un'anticipazione della sua riduzione, rimandando la questione della ristrutturazione e quella degli organici, divenuta molto spinosa, data la crescente tendenza padronale a ricorrere all'appalto. I sindacati ottennero anche accordi aziendali in cui la direzione si impegnò a limitare il ricorso allo straordinario e a compensare un'eventuale intensificazione dei ritmi ricorrendo soprattutto ai riposi di conguaglio. Di fatto però i sindacalisti stessi continuarono a raccontare come lo straordinario fosse la piaga dello stabilimento, principalmente tra i giornalieri, ovvero i non turnisti: gli aumenti salariali limitarono la tendenza allo straordinario volontario, ma non influirono su quello "forzato", nonostante gli impegni formali dell'azienda48.

Intorno al tema delle condizioni ambientali si procedette nel senso di avviare - da parte di commissioni miste composte da rappresentanti sindacali e aziendali, anche in collaborazione con il reparto di Medicina del Lavoro dell'ospedale di Brindisi - uno studio approfondito delle situazioni ambientali dei vari reparti, di fissare criteri massimi di concentrazione ammissibili (i cosiddetti MAC), di istituire registri di reparto consultabili nei quali annotare le varie rilevazioni e di portare a conoscenza di ogni lavoratore che ne facesse richiesta, ed eventualmente di un suo medico di fiducia, delle proprie condizioni sanitarie. Una piattaforma rivendicativa aziendale del luglio 1971 chiese poi che in seguito ad ogni rilevazione si contrattassero le condizioni di lavoro, reparto per reparto. Ma questa piattaforma non fu accolta e di fatto ci si limitò a ruotare gli operai nei casi di infortunio o di intossicazione più grave, talvolta anche spostandoli in reparti ad elevata dequalificazione, contro la volontà degli stessi, perché non erano a conoscenza della propria situazione sanitaria, ad esempio in caso di intossicazioni gravi ma non palesemente sintomatiche. Peraltro gli indici di frequenza e di gravità degli infortuni aumentarono dall'anno 1969 all'anno 1970: la situazione di grave nocività che caratterizzava la Montedison di Brindisi non riuscì in sostanza a mutare. Sempre in tema di salute si ottenne tuttavia, con un accordo aziendale di marzo del 1971, il raggiungimento a livello di fabbrica di una parte di quella parità normativa rigettata dalla contrattazione nazionale, ovvero la parità di trattamento nei casi di infortuni e malattie, professionali o meno, per gli operai e gli impiegati49.

E ancora si ottenne un grande ampliamento dei diritti sindacali: venivano messe a disposizione dieci ore al mese, retribuite, per le assemblee in fabbrica, veniva estesa, seppure a sei anni e non a tempo indeterminato, l'aspettativa per i sindacalisti, venivano estese le tutele per i membri della CI a tre lavoratori per ogni sindacato, venivano migliorati i diritti dei lavoratori di fronte alle sanzioni disciplinari e infine venivano riconosciute le rappresentanze sindacali aziendali come agenti per la contrattazione a livello aziendale. Il sindacato entrava nella fabbrica, in essa si radicava e insieme si apriva un varco per la democrazia.



39. Questo paragrafo è ricavato pressoché interamente da R. Apruzzi, Sviluppo capitalistico e organizzazione sindacale a Brindisi, cit.

40. M. Stefanelli, Settore chimico e organizzazione della classe operaia, cit., pp. 87-93.

41. Citato in M. Stefanelli, Settore chimico e organizzazione della classe operaia, cit., p. 89.

42. M. Stefanelli, Settore chimico e organizzazione della classe operaia, cit., pp. 87-93.

43. Cfr. ad esempio Gli inutili di turno: i maoisti, in "Il Ventisette", settembre 1969. p. 4.

44. Ivi e R. Apruzzi, Sviluppo capitalistico e organizzazione sindacale a Brindisi, cit.

45. Le notizie sono tratte in gran parte da "Il Ventisette", settembre 1969, pp. 4-5.

46. "Il Ventisette", marzo 1970, p. 10.

47. M. Stefanelli, Settore chimico e organizzazione della classe operaia, cit., pp. 108-109.

48. Ivi, pp. 104-105.

49. Ivi, pp. 100-103.


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