L’Oriente di John Thomson, il primo fotogiornalista della Royal Geographic Society

Organizzata dal Kaohsiung Museum of Fine Arts di Taiwan, in collaborazione con il Museo di Storia Naturale dell’Università degli Studi di Firenze e il Centro di Cultura di Taiwan di Parigi, la mostra documenta il viaggio in oriente del fotografo scozzese. Fino al 24 maggio 2015, presso il Museo di Antropologia e Etnologia di via del Proconsolo 12. Tutte le informazioni sugli orari di visita e il prezzo dei biglietti, al sito www.johnthomson.it/.

12 febbraio 2015 16:55
L’Oriente di John Thomson, il primo fotogiornalista della Royal Geographic Society
John Thomson - SPOSA MANCHU, PECHINO, CINA (1871) Copyright The Wellcome Library, London

FIRENZE - L’Oriente leggendario e ancora misterioso del XIX Secolo, l’Oriente degli Imperi e delle ricchezze favolose, di pagode e palazzi da fiaba, ma anche delle risaie e delle contadine. Da Taiwan alla Cambogia, passando per la Cina e il Vietnam, si muove l’obiettivo dello scozzese John Thomson, fra i primissimi fotogiornalisti al mondo a spingersi nell’allora remota isola di Formosa, e a raccontare l’Oriente da un punto di vista antropologico, prendendo le distanze dagli stereotipi dei quadri di genere, che stavano conoscendo ampia diffusione in Europa.

Attraverso 68 stampe fotografiche, la mostra John Thomson. Primi sguardi verso Oriente- curata da Pei-ni Beatrice Hsieh, direttrice del Kaohsiung Museum of Fine Arts di Taiwan -, ricostruisce il reportage del fotografo scozzese (1837-1921), fra i primi fotogiornalisti al mondo, che fra il 1865 e il 1871 compì un lungo viaggio in Estremo Oriente, introducendo importanti innovazioni nell’approccio documentaristico della fotografia, che per la prima volta si fa ricerca antropologica, andando oltre la semplice riproduzione di paesaggi o ritratti di gentiluomini e gentildonne, secondo la consuetudine europea dell’epoca.

La fotografia è tecnica dall’etimologia suggestiva: dal greco fotos (luce) e grafein (scrivere), designa la “scrittura della luce”, formula appena poetica per riassumere lacapacità dell’artificio umano di fermare, in modo più realistico della pittura, l’essenza diciò che per secoli era sembrato avere natura divina, ovvero quella realtà sempre rimastasfuggente anche ai pittori più sensibili. Lo scozzese John Thomson conferisce nuova profondità alla realtà della lastra impressionata, ogni scatto diventando una sorta di poesia della natura e della vita quotidiana di quei popoli lontani.

Nato a Edimburgo da un’umile famiglia, durante gli studi scientifici presso la Watt Institution and School of Arts, sviluppò interesse per la fotografia, campo in cui si cimentò a partire dal 1862, a Singapore. I primi reportage dall’allora Regno del Siam (l’odierna a Thailandia) e dalla Cambogia, effettuati fra il 1865 e il 1866, gli valsero in patria la nomina di membro della Royal Geographic Society, e della Royal Ethnological Society. Sin da questi primi scatti, si coglie l’interesse di Thomson per l’essere umano e la sua cultura, gli usi e costumi che lo caratterizzano, spingendosi anche nella sua spiritualità. A questo proposito, è particolarmente suggestivo il Rogo per la cremazione del figlio del Re Mongkut, che ritrae un vasto spiazzo in terra battuta, antistante templi millenari, che appunto ospiterà la cerimonia funebre. Un senso d’immanente attesa sembra calare sul paesaggio, e trasmettere a chi osserva un senso d’eternità,

Il mito del Sud Est asiatico riposava in particolare sulla magnificenza delle Corti, e Thomson ci lascia un affascinante ritratto, di gusto europeo del Re Mongkut, e un altro del sovrano negli abiti tradizionali, a ribadire l’interesse del fotografo scozzese nei confronti della cultura locale. Proseguendo nel suo itinerario, Thomson visitò i magnifici templi di Angkor Wat, dei quali ci trasmette quell’affascinante senso di straniamento che sale dallo stato d’abbandono in cui versavano all’epoca, immersi in un silenzio spettrale, e circondati dalla giungla; non un quadretto di genere, ma la ferma volontà di documentare lo stato dei templi, aggrediti dallo scorrere del tempo che ne rovina gli splendidi colonnati e i tetti scolpiti, cogliendo anche la bellezza dei bassorilievi, con eteree danzatrici d’ineffabile bellezza muliebre.

Tappa immancabile di un reportage in Oriente, la Cina, che Thomson visitò dal 1869 al 1871, trovando un Paese sterminato, che soltanto da poco si era aperto al commercio su larga scala con l’Europa; rapporti tenuti in una logica colonialista da parte occidentale, le cui logiche vessatorie contribuivano ad aumentare il malcontento delle classi più povere verso l’Imperatore; quando Thomson vi giunse, Pechino aveva da poco domata la rivolta dei Taiping, scaturita dalla cosiddetta “Guerra dell’oppio”.

Eppure, nonostante le contraddizioni che già all’epoca interessavano il Paese, Thomson ci restituisce l’essenza di una millenaria cultura rurale, fortemente legata alla natura e ai suoi ritmi. Dalle sterminate risaie, alla pesca con i cormorani, dalle steppe della Manciuria disseminate di statue dai significati religiosi nelle zone delle necropoli imperiali, ai monaci buddisti che giocano a scacchi, fino ai ritratti di donne giovani e anziane, questi scatti sono il risultato di un approccio fotografico completamente nuovo, votato alla documentazione antropologica.

È infatti una novità assoluta, il dare così ampio spazio alla figura femminile, per di più della classe media e persino popolare, soggetti solitamente poco considerati anche nella rigidamente maschilista Europa. Thomson ce ne descrive la condizione, anche di sofferenza, fermando sulla lastra la condizione della donna in Cina: emblematica l’immagine di una donna cantonese che indossa le tradizionali scarpe a punta, autentici strumenti di tortura che costringevano il piede in una posa innaturale, deformandolo e impedendone la crescita.

La donna, infatti, per rimanere in piedi è costretta a sostenersi allo stipite di una porta. È documentato che, nella mentalità cinese di allora, i piedi femminili così “trattati” erano considerati particolarmente eccitanti nelle pratiche sessuali. Chi altri, prima di Thomson, ha dato risalto a immagini del genere? E ancora, commovente nella sua emblematicità, il ritratto della sposa Manchù, nel caratteristico abito di seta dalle ampie maniche, riccamente decorato con eleganti motivi floreali.

Nonostante sia colta nel giorno del suo matrimonio, la ragazza ha sul volto un’espressione di rassegnata tristezza, segno, sospetta Thomson, della vita di sottomissione che l’attende. In questo, la Cina non era troppo diversa dalla “civilizzata” Europa. Fotografie, queste, che ricordano la Cina della scrittrice Pearl SydenstrickerBuck, che vi abitò una prima volta dalla fine dell’800 al 1910, fra Ching Kiang e Shanghai, tornandovi successivamente dal 1914 al 1934. Una Cina lontana anni luce da quella che conosciamo oggi, dove l’antichissima società rurale sta cedendo il passo a un’industrializzazione sempre più estesa, ma i cui scorci naturali conservano negli scatti di Thomson una bellezza eterna.

La sezione più ampia della mostra è dedicata a Taiwan, l’antica Formosa, che Thomson fu il primo europeo a visitare per scopi di documentazione giornalistica. Un Paese splendido ma ancora poco conosciuto, che le travagliate vicende storico-politiche seguite alla guerra civile in Cina terminata nel ’49, hanno relegato ai margini della scena mondiale. Un isolamento imposto dalla volontà di Pechino - che continua a considerare l’isola alla stregua di una provincia ribelle -, e tacitamente accettato dal resto del mondo, Taiwan essendo stato riconosciuto da appena 23 Nazioni.

Un Paese che dall’inizio degli anni Novanta ha intrapreso un processo di rinnovamento politico e culturale, all’interno del quale sta riscoprendo il proprio passato. E le fotografie di Thomson restituiscono all’osservatore contemporaneo scorci di una natura ancora selvaggia, non toccata dall’industrializzazione; ampi letti di fiumi che solcano dalli boscose, lussureggianti foreste, ai cui margini abitano popolazioni ancora legate all’agricoltura. E Thomson racconta questa realtà, ancora una volta focalizzando l’attenzione sull’antropologia, soffermandosi sulle donne locali, sui loro costumi, le acconciature, i gioielli, indici della loro condizione sociale.

Ne emerge una realtà antropologica variegata, composta da numerose tribù Austronesiane, fra cui i Pepohoan e i Baksa, il cui patrimonio culturale rappresenta uno dei tanti tesori da salvare del patrimonio spirituale dell’umanità.

In una fase di riallestimento e ridefinizione del rapporto con la città di Firenze, il Museo di Antropologia e Etnologia ospita questa splendida mostra sull’Oriente che fu, una mostra non soltanto estetica ma anche concettuale, che documenta i cambiamenti dell’approccio fotografico alla fine dell’Ottocento, e punta l’attenzione su Taiwan, una terra ancora oggi poco conosciuta, e vittima di un isolamento che l’Occidente ha accettato con troppa leggerezza.

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