Livornina d’oro a Carlo Coccioli

La Giunta Comunale approva il conferimento della massima onorificenza cittadina allo scrittore livornese nel 16° anniversario della sua scomparsa

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
17 febbraio 2019 18:49
Livornina d’oro a Carlo Coccioli

La Giunta Comunale ha deciso di conferire la Livornina d’oro, massima onorificenza della Città di Livorno, a Carlo Coccioli, scrittore livornese nato nel 1920 e deceduto a Città del Messico nel 2003. Il tributo arriva a 16 anni dalla morte del celebre intellettuale, scrittore di fama mondiale, partigiano e medaglia d’argento al valor militare per la resistenza partigiana.

“Abbiamo voluto con questo tributo omaggiare la memoria di un livornese illustre che merita una definitiva riscoperta della propria opera in patria, dove purtroppo invece fu spesso osteggiato per le sue prese di posizione libertarie su temi scottanti come omosessualità e religione” così Francesco Belais, assessore alla cultura, a commento.

Narratore e intellettuale fuori dagli schemi ordinari, scrittore dalla bibliografia vastissima, autore di libri tradotti in almeno 15 lingue e conosciutissimo all’estero specie in Messico dove si trasferì “in esilio volontario” nel 1953, Carlo Coccioli ha ricevuto pochi riconoscimenti in Italia tra cui un premio selezione Campiello nel 1976. Il Comune di Livorno gli aveva già reso omaggio intitolandogli una sala lettura presso la sede della Biblioteca “F.D. Guerrazzi” a Villa Fabbricotti ed una strada nel complesso Porta a Mare. Adesso, con una cerimonia la cui data sarà indicata nei prossimi giorni, l’amministrazione comunale procederà a conferirgli la Livornina d’oro, massima onorificenza cittadina, che sarà consegnata al nipote Marco Coccioli.

Biografia

Carlo Coccioli, partigiano, scrittore, intellettuale, nacque a Livorno, in Scali Novi Lena n. 1, il 15 maggio 1920 da Attilio, Ufficiale dei Bersaglieri e Anna Duranti, livornese di famiglia ebraica. Dopo aver passato l'infanzia e l'adolescenza in Libia, al seguito del padre, rientrò in Italia per completare gli studi. Richiamato alle armi, dopo l'8 settembre 1943 si unì alle prime formazioni partigiane sull'Appennino Tosco-Emiliano. Catturato dai tedeschi, evase dalla prigione di Bologna; a guerra conclusa, gli viene conferita la medaglia d'argento al valore militare per gli avvenimenti della Resistenza.

Nell'immediato dopoguerra, si laureò in lingue e letterature orientali (araba ed ebraica) presso l'Istituto Orientale di Napoli. A questo periodo risalgono le prime esperienze letterarie che lo portarono a Parigi dove pubblicò nel 1950 “Il cielo e la terra” romanzo, di ambientazione bellica e pervaso da una forte tensione religiosa, che ebbe un enorme successo e fu tradotto nelle principali lingue del mondo. Sull'onda di tale successo, nel 1952, Coccioli riuscì a pubblicare “Fabrizio Lupo”, racconto in termini espliciti della scoperta da parte del protagonista (un cattolico) della propria omosessualità.

Il romanzo suscitò scandalo e scalpore (il romanzo fu tradotto in italiano solo nel 1978) tanto che l'autore nel 1953 abbandonò l'Europa e si stabilisce a Città del Messico, dove frequenta il pittore Diego Rivera, la poetessa Guadalupe Amor, ed altri protagonisti della vita artistica e intellettuale del paese. Nel 1960 inizia l'attività di inviato speciale per alcuni quotidiani italiani: prima il Corriere della Sera poi Il Giorno e La Nazione.

Viaggia in tutta l'America Latina. Nel novembre 1966 è a Firenze durante la drammatica inondazione, sulla quale scrive il saggio “Firenze 1966: non è successo niente”. Frequenta regolarmente Firenze, dove continua ad avere una casa, che manterrà fino al 1995, quando vi rinuncerà per acquistarne una a Livorno, in Scali delle Ancore, in un impulso di avvicinamento alle proprie origini. Nel 1973, con la pubblicazione di “Uomini in fuga”, dà inizio al cammino del movimento degli Alcolisti Anonimi in Italia. Il percorso di avvicinamento alla religione ebraica, intrapreso alla fine degli anni '60 e descritto in “Documento 127”, ha il suo culmine nel 1976, anno di “Davide”, che gli varrà in seguito il premio Selezione Campiello.

All'inizio degli anni '80 il suo interesse si volge sempre più verso le religioni orientali, in un appassionato approfondimento che passa dapprima attraverso l'induismo (La casa di Tacubaya, 1982) per approdare al buddhismo, è del 1987 il romanzo Piccolo Karma. Carlo Coccioli ha continuato a scrivere fino ai suoi ultimi giorni. Malato, operato di cuore, è rimasto legato alla sua Città del Messico, dove è spirato serenamente il 5 agosto del 2003.

Le opere

Personaggio a suo modo unico, straordinario, scrittore dalla bibliografia vastissima (una cinquantina di titoli, moltiplicatisi in quasi centosessanta tra edizioni, traduzioni e ristampe, dal romanzo “Il migliore e l’ultimo” uscito da Vallecchi nel ’46 al seguito del celebre “Piccolo Karma”, rifiutato da un editore proprio nella primavera del 2003), passato attraverso decine di case editrici, tradotto in almeno quindici lingue, ha venduto per milioni di copie. Scrisse correntemente in tre lingue: italiano, francese e spagnolo, traducendo lui stesso i propri libri e così modificandoli e rendendoli opere spesso diverse a seconda della lingua di pubblicazione.

Coccioli non ebbe grande fama in Italia, o perlomeno l’ebbe molto tardi. Curzio Malaparte e Aldo Palazzeschi lo sostennero, mentre Guido Piovene lo attaccò duramente. Geno Pampaloni scrisse che nelle sue pagine c’è qualcosa di dannunziano, Carlo Bo disse che Coccioli e i suoi libri sembrano provenire “da un’altra cultura”, ed è nota l’infatuazione letteraria di Pier Vittorio Tondelli che di lui, nell’87, su L’Espresso, scrisse: “….cominciai a leggere Carlo Coccioli alla metà degli anni Settanta….”Il successo lo ottenne all’inizio in Francia, e poi fu molto letto in Sudamerica.

Mentre viveva tra Città del Messico e il Texas in compagnia del vecchio cane Fiorino e di un giovane inserviente, guardando telenovelas in tv e pensando ai libri scritti e a quelli lasciati in sospeso, a volte firmava sul quotidiano messicano Excelsior, sul settimanale “Siempre”, in maniera discontinua anche sui giornali italiani (Il Giornale e Il Corriere della sera, La Nazione) parlando soprattutto della condizione umana contemporanea, della disumanizzazione della vita nei grandi insediamenti urbani, della difesa degli esseri più deboli.

Ogni tanto tornava, per un poco, in Italia. E’ proprio in Messico, tra la capitale e Cuernavaca, che scrive i suoi libri più importanti: “Manuel, il messicano” (1956), “L’erede di Montezuma” (1962) – romanzo-capolavoro sul tramonto della civiltà dell’oro e del sole distrutta dai conquistatori e dai mercanti europei –“Requiem per un cane”(1973), il poema “Davide” (1976), finalista al Campiello, “Le case del lago” (1980), “La casa di Tacubaya” (1982) – ovvero la sede messicana degli Hare Krishna – i bellissimi racconti “Uno e altri amori” (1984), “Piccolo Karma” (1987) e la tormentata autobiografia “Tutta la verità” (1995).

Scettico nei confronti dell’uomo (“A me non piacciono gli specchi, anzi li detesto. Sono una parodia dell’infinito. Invece di riflettere Dio, riflettono facce di scimmie, le nostre”) e dell’umanità (“Io di fratelli ne ho avuti solo due, e uno è morto. Non ho punta voglia di averne quattro miliardi”), non abbandonava mai le sue idee provocatorie, polemiche e impopolari. Come quando nel 1989, sull’onda dell’indignazione globale di fronte al regime islamico iraniano che condannò a morte Salman Rushdie per l’opera blasfema “Versetti satanici”, in quindici giorni diede alle stampe, in spagnolo, “La sentenzia del Ayatola” in cui prendeva posizione a favore di Khomeini sostenendo che se Rushdie aveva il diritto di scrivere il suo romanzo, lo stesso diritto aveva Khomeini di condannarlo.

Oppure, come quando durante il G8 di Genova, nell’estate infuocata del 2001, entrò per l’ennesima volta in rotta con le gerarchie cattoliche chiedendo al vaticano un gesto clamoroso: vendere i propri tesori e ridistribuire il ricavato ai poveri perché “una Chiesa ricca non è la Chiesa di Dio”.

La “ Livornina d’oro”

La Livornina, o “Liburnina” d’Oro è la massima onorificenza di Livorno, che viene conferita fin dagli anni ‘50 a personalità che si siano particolarmente distinte in ogni campo, quale omaggio o riconoscimento dell’Amministrazione comunale e della Città di Livorno. La Livornina riproduce un’antica moneta medicea, il “mezzo tollero”, coniata dalla Zecca di Firenze per Livorno da Cosimo III nel 1683.

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