Lavia e quell’autunno svedese in chiaroscuro

Una madre e una figlia, un duro confronto dopo sette anni di lontananza, sullo sfondo di ambizioni artistiche in parte frustrate, e difficoltà familiari. Fino a domenica 15 febbraio, al Teatro Manzoni di Pistoia. www.teatridipistoia.it.

14 febbraio 2015 11:28
Lavia e quell’autunno svedese in chiaroscuro

PISTOIA - Il tormentato rapporto fra una madre e le figlie, un viscerale amore per l’arte che crea distanze invalicabili, e il perfido persistere del passato che non riesce a sopire i vecchi rancori.

Questa l’essenza di Sinfonia d’autunno, spettacolo teatrale che Gabriele Lavia ha tratto dall’omonima pellicola (1978) di Ingmar Bergman, affidando ad Anna Maria Guarnieri il ruolo di Charlotte, pianista di talento la cui carriera non ha però potuto compiutamente sbocciare, a causa di forti dolori alla schiena che da anni l’affliggono e le impediscono di suonare al meglio. Costretta a esprimersi su un piano artistico intermedio, la donna assorbe dentro di sé profonde frustrazioni, anche in considerazione del fatto che il pianoforte per lei è stato tutto, al punto da sacrificarvi il legame con il marito e le figlie, costantemente richiamata in giro per il mondo dai suoi impegni di tournée.

Da qui, il senso d’abbandono che assale marito e figlie, fino alla morte dell’uomo, e alla nuova relazione di Charlotte con un certo Leonardo. Quando anche costui muore, dopo sette anni di lontananza Charlotte si decide a mettersi in viaggio per trascorrere qualche giorno presso la figlia Eva e il marito Viktor. Ma l’occasione per un riavvicinamento, sfuma.

Eva e Viktor sono una coppia distrutta dalla perdita del figlio Erik, di appena quattro anni; a modo loro, entrambi hanno elaborato il lutto, Eva sentendo ancora la presenza del figlio accanto a sé, Viktor guardando ripetutamente vecchi filmati del figlio colto in momenti di gioco. Il grave lutto ha viepiù acuito la distanza fra i coniugi, la cui relazione si è adesso trasformata in profonda amicizia. Da parte sua Eva non è mai stata veramente innamorata del marito, di molti anni più anziano di lei. A completare un quadro già difficile, la presenza in casa di Helena, la sorella cerebrolesa di Eva, che la donna ha voluto prendersi in casa, dopo che la madre l’aveva fatta ricoverare in una casa di cura.

Su queste premesse si gioca una pièce complessa, che dovrebbe approfondire uno dei sentimenti più nobili dell'essere umano, quell'amore filiale che non sempre si realizza compiutamente. Eppure, lo spettacolo delude per la mancanza d’accuratezza registica, che poco ha curata la parte attoriale.

Charlotte è certamente una donna e una madre fatua, e tuttavia nasconde profondi abissi di solitudine e frustrazione, cui però la recitazione enfatica e sbrigativa di Guarnieri toglie il giusto peso drammaturgico. I dolori di schiena di cui soffre, sono riportati con un eccesso di teatralità, dando maggior risalto visivo alla posa, anziché alla loro dimensione fisica e soprattutto morale; sdraiarsi urlando istericamente sul pavimento, è soltanto patetico.

Tuttavia, Guarnieri dà la sensazione di essere fuoriposto anche nel resto dello spettacolo, non riuscendo a toccare, con la sua recitazione, le giuste corde drammatiche, portando sul palcoscenico una tronfia di artista di varietà di terz’ordine, anziché una donna matura alle prese con sofferenze artistiche e morali.

Non molto più convincenti Valeria Milillo e Danilo Nigrelli rispettivamente nei ruoli di Eva e Viktor, la cui recitazione è viziata da evidenti e ripetute incertezze mnemoniche e di dizione. Tuttavia, Milillo riesce a calarsi abbastanza efficacemente nelle insicurezze di Eva; il suo continuo aggirarsi per la casa alla ricerca di qualcosa da fare, i dialoghi immaginari con il figlio scomparso, la tenerezza materna che pone nell’accudire la sorella malata, sono tutti elementi che ben delineano le insicurezze in cui si muove l’introversa Eva.

Nigrelli è invece un Viktor più opaco, la cui virilità sembra annullata dalla morte del figlio, e in più di un’occasione appare fuori posto, vagando sulla scena senza una meta ben precisa.

La prima parte dello spettacolo, in cui conosciamo Eva e Viktor, con i loro drammi familiari e personali, e dove assistiamo all’arrivo della madre, è costruita, a parere di chi scrive, con un ritmo troppo concitato, laddove l’atmosfera nordica (suggerita dalle belle luci di scena) e soprattutto i contenuti drammaturgici, avrebbero richiesta una maggior lentezza, in linea concettuale con il persistere dei ricordi.

Nella seconda parte, ad aumentare la carica drammatica fin qui troppo debole, viene introdotta Helena, la presenza della quale in casa di Eva era sin lì ignorata da Charlotte, imbarazzata e intimorita dalla malattia della figlia, il cui peggioramento Eva attribuisce proprio allo snaturato comportamento della madre.

Toccante, per intensità e drammatico realismo, l’interpretazione di Silvia Salvatori nel ruolo della ragazza malata, che dalla sedia a rotelle su cui è imprigionata, lancia alla madre le sue grida d’amore e di rimprovero, e commuove quando tenta di scendere le scale strisciando, per recarsi dalla madre.

Poche ore dopo l’arrivo di Charlotte, nel corso di una notte concitata, si svolge il confronto, a lungo atteso da entrambe, fra madre e figlia, nel corso del quale emergono i rancori di quest’ultima, che accusa la prima di aver privilegiata la carriera a scapito della famiglia, e di aver trascurato in particolare la fragile Helena. La distanza della madre dalla figlia appare evidente quando invitatala a suonare al pianoforte, il preludio n. 2 di Chopin, si profonde in osservazioni che suonano però come critiche, e, infine, suona magistralmente lo stesso pezzo.

Charlotte non ha argomenti per entrare in sintonia con la figlia, la quale le nega il perdono che troppo facilmente le ha chiesto, e le chiede di andarsene, pur sapendo che molto difficilmente si rivedranno. La mattina successiva, Charlotte parte, dopo appena un giorno trascorso con la figlia. E la vita di Eva e Viktor riprende, avvolta in monotoni silenzi, ognuno assorbito dal dolore per la perdita del figlio, legati soltanto da un’amicizia che sembra diventata un’abitudine.

Un testo di per sé interessante e toccante, che però non convince pienamente, a causa di una poco accurata recitazione da parte degli attori, non ben inseriti nell’atmosfera bergmaniana, e che invece la bella scenografia interpreta con efficacia: un interno borghese, un grande sala immersa in una luce scura, con una grande finestra dalla quale si può vedere il cielo; sulla destra, quella che fu la stanza di Erik, dove Eva e Viktor ancora si recano, e che conserva i suoi vecchi giocattoli. Una Wunderkammer della memoria e del dolore, unico luogo d’incontro per i due coniugi.

Alla chiusura del sipario, applausi di stima per uno spettacolo cui Lavia non ha dedicata la consueta attenzione formale. Anche i maestri possono sbagliare.

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