La stupidità della politica secondo Harold Pinter

Marco Plini e la Compagnia Stabile pratese portano in scena uno dei testi più crudi del drammaturgo anglosassone, svelando le laide macchinazioni del potere più ottuso. Al Metastasio di Prato fino al 22 febbraio. www.metastasio.it.

13 febbraio 2015 12:19
La stupidità della politica secondo Harold Pinter

PRATO - Per il suo ritorno al Metastasio dopo La cantatrice calva, Marco Plini sceglie uno dei testi più sofferti e claustrofobici di Harold Pinter, quel La serra dolorosamente ancora troppo attuale, nella sua disquisizione sull’oppressività di un potere che, nei fatti, si dimostra avido, meschino e incompetente, indegno del compito affidatogli dai popoli. Un testo a metà fra la satira politica, il noir, il thriller, le considerazioni sociologiche, che ancora oggi descrive i meccanismi perversi del potere, un testo dove la vicenda apparente necessita di “dietrologismo”, come nella miglior tradizione della politica.

Siamo in un non meglio specificato istituto che accoglie individui alienati, affetti da manie depressive, o più semplicemente deboli e ingenui. Individui appositamente segnalati da un misterioso Ministero, e che si ritrovano ospiti dell’inquietante struttura, che di fatto controlla ogni loro movimento. In scena ne vediamo soltanto uno, il lievemente ritardato Lamb, addetto alle serrature, ovvero incaricato ogni sera di chiudere a chiave gli altri pazienti nelle loro stanze, prima di essere a sua volta rinchiuso.

A capo della struttura, un ex colonnello dell’esercito, Roote - che nell’aspetto ricorda un più pingue Adolf Hitler -, tronfio e satrapesco, nonché frustrato per il dislocamento in questa struttura decentrata. Sotto di lui, si muove una viscida corte composta dal segretario Gibbs, e dal personale medico - di cui conosciamo due membri, Miss Cutts e Lush -, e, al livello più basso della gerarchia, il personale ausiliario, addetto alla logistica, alle pulizie, alla mensa, qui rappresentato da Tobb.

Sin dall’inizio si comprende la disorganizzazione e il qualunquismo con cui è gestita la struttura, fra le amnesie del direttore, la sua confusione con l’agenda, il disprezzo per i pazienti chiamati per numero e non per nome. A preoccupare Roote, la morte del paziente 6457, sembra per infarto, e il parto, avvenuto il giorno prima, della paziente 6459. Vicende che è necessario tenere nascoste, non informando nessuno della morte del 6457, e togliendo quanto prima il figlio alla 6459, non prima di aver scoperto e punito il padre. Questa la volontà del direttore, che nel frattempo volge il pensiero a fatuità come la lotteria di Natale.

Mauro Malinverno personifica al meglio figure ancora oggi drammaticamente attuali, ovvero ottuse pedine politiche di un gioco ancora più grande di loro, incompetenti carrieristi disposti a tutto pur di mantenere la carica. Una recitazione, la sua, ridicolmente isterica, quasi bambinesca negli entusiasmi per le futilità natalizie. Al suo fianco, lo scrupoloso segretario Gibbs, di cui Luca Mammoli traccia un convincente ritratto scenico: inappuntabile nel suo completo nero, con regolamentare cravatta abbinata, ha un costante tono deferente, e accetta passivamente gli ordini del capo, fino all’inatteso finale.

Miss Cutts e Lush, rispettivamente Valentina Banci e Fabio Mascagni, sono la classe dirigente di un sistema ormai marcio, impegnati soltanto in una guerra di successione per il potere, terrorizzati dall’idea di perdere la loro posizione.

Valentina Banci è una Miss Cutts ossessionata dall’idea di non esprimere abbastanza femminilità, bramosa di sesso e che passa con disinvoltura da Gibbs a Roote. Seducente in tailleur scuro o in lingerie di seta rossa, le sue pose lascive, abbandonata sul divano, esprimono l’ansia febbrile di una donna che brama di possedere ed essere posseduta, una figura che ricorda tante donne potenti della storia, in particolare la Regina del Regno di Napoli, Maria Carolina, astuta moglie di Ferdinando IV.

Più perfidamente, Mascagni dà vita a un Lush doppiogiochista, forse geloso di Miss Cutts, che si fa scrupolo di puntare l’indice sugli scandali interni, ma soltanto per mero carrierismo, ovvero sperando di scalzare Roote (lo prova il fatto che alla madre del paziente 6457 nasconde la morte del figlio, dicendole che è stato trasferito in un’latra struttura). E a tal proposito, è protagonista di una grottesca, violenta scena con il direttore e Gibbs, che poi si risolve con un patetico brindisi.

Ad accomunarli, il disprezzo per i pazienti, dei quali il mite Lamb (“agnello”, in inglese), costituisce l’esempio più triste. Se la morte del paziente 6457 può essere facilmente insabbiata (pur essendo sospettato lo stesso Roote), la gravidanza della paziente 6459 è più difficile da nascondere, e pertanto è necessario trovare il padre e punirlo. Per coprire il capo, si incastra l’ingenuo Lamb, sottoponendolo a una seduta di elettroshock a una serie di domande sul sesso, dalle cui risposte Miss Cutts e Gibbs estrapolano una fittizia confessione. Impressionante l’interpretazione di Giusto Cucchiarini, nelle vesti di un uomo affetto da lieve balbuzie e evidente ritardo mentale, incosciente su dove si trovi e perché, ma candidamente entusiasta di “dare il suo contributo”.

E, altra metafora della debole massa umana sottomessa al potere, giunge come uno schiaffo in pieno volto la grottesca scena del regalo di Natale: indossando un costume da pollo (che sia un caso, non credo), irrompe cantando sulla scena Tubb (Francesco Borchi), tuttofare della struttura: deve appunto consegnare un regalo a Roote - una grande torta -, da parte di tutto il personale ausiliario e dei pazienti, e che adesso attendono con impazienza un discorso da parte del direttore. La massa, quando perde l’abitudine al libero pensiero, trova sempre confortanti le parole del capo, e con il tempo perde anche la capacità di vederne i difetti. Poche immagini teatrali hanno espresso una simile causticità.

E mentre il popolo attende il discorso del capo, si consuma la tragedia di un sistema votato all’autodistruzione dalla sua stessa pigrizia, incompetenza, meschinità.

La mattina successiva, si scopre che il direttore e l’intero personale medico sono stati massacrati, tranne Gibbs, che a suo dire non si trovava in ufficio. Il colpevole viene indicato in Lamb, palese capro espiatorio di Gibbs, dal quale s’intuisce sia stato armato e lasciato libero di colpire. Per una ridicola inchiesta, giunge all’istituto il ministro Lobb, interpretato da Elisa Cecilia Langone. In costume settecentesco, quasi fosse un paggio di Luigi XIV, Langone dà vita a un personaggio burattinesco, (qual è anche la magistratura italiana asservita al potere), e si accontenta delle spiegazioni di Gibbs.

Il quale, sulle note beffarde di una canzone d’amore, si accomoda alla scrivania che fu di Roote, con un ghigno stampato sul volto, a simboleggiare un cambio della guardia che però nei fatti non avrà niente di diverso: cambiano i volti, ma la sostanza del potere resta la stessa. Altre puttane, altri ruffiani, costituiranno la sua corte, altri scandali saranno insabbiati, fino a un nuovo sanguinoso avvicendamento di potere. Quest’ultimo aspetto può anche essere paradossale (anche se la storia recente africana ci ha forniti esempi di dittature assurde e sanguinarie insieme), ma il resto della sostanza ci sembra atto a descrivere la modesta Italietta degli anni Duemila.

Per inciso, una serra è propriamente una struttura dove, in atmosfera artificiale, si coltivano piante di ogni genere, forzandone la crescita o alterandone le fasi, per una produzione a ciclo continuo che soddisfi la richiesta del mercato. E parimenti, Pinter immagina il suo “istituto” come un luogo dove si plasmano, si correggono, insomma si “coltivano”, le coscienze, manovrate da un potere laido e ottuso. Una situazione che purtroppo, con il consenso del popolo, si sta verificando anche in Italia, dove la politica è soltanto un’occasione per arricchirsi a spese del cittadino, un “parcheggio” per ruffiani e puttane d’ogni genere, la cui incompetenza nuoce gravemente alla dignità dello Stato.

Eppure, il circo va avanti.

L’elegante, asettica e opprimente scenografia è costituita dalla riproduzione dell’ufficio del direttore, un cubo di vetro sopraelevato che contiene la scrivania, il computer, e un grottesco albero di Natale. Ai suoi piedi, a sinistra, la scrivania del segretario, e al centro il divano che è teatro d’incontri amorosi più o meno occasionali. Il resto dell’istituto non lo vediamo, possiamo soltanto immaginarlo; di fatto, vi “entriamo” soltanto una volta, al momento dell’elettroshock cui è sottoposto Lamb; sul palcoscenico buio, intuiamo una stanza asettica, con in primo piano la poltrona su cui è seduto il paziente.

Un sapiente gioco di luci, ora soffuse, ora violente, accompagna i cambiamenti d’atmosfera, cambiamenti anche repentini che contribuiscono al clima oppressivo del testo.

Uno spettacolo duro, amaro, dalle atmosfere cupe, che il pubblico in sala, purtroppo non particolarmente numeroso, fatica a seguire e ad accettare. Eppure, reazioni del genere, paradossalmente confermano la grandezza di Harold Pinter e del suo testo, capace di ritrarre fedelmente il rapporto fra popolo e potere: anche l’Italia è una grande “serra” dove, come tanti docili Lamb, gl’italiani collaborano con piacere a mantenere lo status quo , beatamente distratti dal festival di Sanremo, dai reality-show, dal campionato di calcio, e tante altre carnevalate, mentre la politica continua i suoi sporchi, ridicoli giochi. Sic transit gloria mundi.

Foto gallery
In evidenza