La cucina dei toscani poveri, ma non così tanto

Nel saggio di Maria Concetta Salemi “Poveri toscani!” (pp. 144, € 12,00) per l’editrice Sarnus nella collana «La Cuccagna»

Nicola
Nicola Novelli
11 ottobre 2020 11:40
La cucina dei toscani poveri, ma non così tanto

FIRENZE- Sta tutto nelle premesse, di carattere storico-geografico e economico-agricolo. Altrimenti è difficile comprendere davvero la cucina contadina della Toscana del passato. E’ ciò che prova a fare il nuovo saggio di Maria Concetta Salemi intitolato “Poveri toscani!” (pp. 144, euro 12,00), uscito nelle settimane scorse per l’editrice Sarnus nella collana «La Cuccagna». L’autrice, studiosa di cultura del cibo con almeno una dozzina pubblicazioni alle spalle, tra cui il recente “Mangiare nel Medioevo” (2018), si concentra sull’arte di trasformare la scarsità in ricette straordinarie: “I poveri toscani di cui ci occuperemo” spiega nell’introduzione “sono in realtà quelli che, non trovandosi in assoluta penuria alimentare, potevano esercitare la loro abilità gastronomica trasformando il poco che avevano in veri capolavori, frutto di una cucina sana, leggera, a volte persino avara, fondata sulla naturalezza e la semplicità”.

Perché non erano in assoluta penuria alimentare? Forse grazie alla mezzadria, che a partire dal basso Medioevo consentì lo sviluppo di tecniche agronomiche, con cui i contadini toscani incrementarono il valore dei poderi ottenuti in concessione, se messi a confronto con il latifondo che imperò nel mezzogiorno sino al secondo dopoguerra.

Perché avara, ma naturale? Certamente per la varietà dei territori toscani e la differenza da quello che sono oggi. Cioè a dire che al posto dei panorami di vigne, olivi e cipressi che caratterizzano l’iconografia contemporanea, le campagne toscane erano invece caratterizzate da paesaggi differenti, dai pascoli e castagneti dell’appennino pistoiese al grano della Valdichiana, dalla pastorizia del Senese e al bestiame della Valdinievole. E ovunque ortaggi e la conoscenza minuziosa di erbe selvatiche, prodotti del bosco e piccola cacciagione, sgraffignata alle riserve del padrone.

Dunque una dieta attenta al mutar delle stagioni, sopratutto per i contadini meno agiati, quelli privi di un podere, che si riducevano a far da braccianti, spostandosi dalle montagne alle pianure, oppure taglialegna dall’Appennino in estate, alla malarica Maremma in inverno.

Senza dimenticare che una caratteristica dominante del paesaggio del passato erano le acque stagnanti, che non regnavano incontrastate soltanto sul litorale tirrenico, dove qualche sparuta vestigia sopravvive ancora oggi. Basti pensare alla vastità del Padule di Fucecchio, sorta di mare interno che per secoli dissuase le mire di conquista fiorentine su Lucca.

Solo comprendendo queste differenze orografiche e colturali, tra la Toscana di ieri e quella di oggi, ci si può immergere davvero nello studio delle varietà gastronomiche intraregionali. Quello che realizza Maria Concetta Salemi nel suo “Poveri toscani!”, dedicando con consapevolezza storica specifici capitoli al pane e all’acquacotta, alle zuppe e alle pappe, alle castagne e alla farina, ai ritagli di carne sino al sanguinaccio, senza dimenticare il pollaio, l’orto, il sottobosco e le acque palustri.

Dopo aver letto il volume della Salemi, la prossima volta avranno un altro sapore i pici all’aglione, il cibreo, l’acquacotta, o il cacciucco, che propongono i tanti ristoranti di sedicente “cucina tradizionale” toscana. Scremati da quel generico brand di colline e cipressi, con cui ormai si vende di tutto sotto il marchio della toscanità, che per fortuna ci ha già pensato un artista a proporre i propri escrementi inscatolati, altrimenti troveremmo anche Quella in un barattolo con l’etichetta “wonderful Tuscany”.

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