I colori del partigiano Falco cancellano il nero del Duce

Il Casino dei Principi di Villa Torlonia, già residenza di Mussolini, ospita sino al 31 marzo 2019 la mostra “Discreto Continuo - Alberto Bardi. Dipinti 1964 – 1984”

Elena
Elena Novelli
15 dicembre 2018 23:55
I colori del partigiano Falco cancellano il nero del Duce

In occasione del centenario dei suoi natali, si è aperta venerdì a Roma l’antologica del ‘ toscanaccio’ Bardi. Il pittore nasce l’8 ottobre del 1918 a Reggello, ma lo scoppio della seconda guerra mondiale lo costringe a lasciare l’Appennino e a interrompere gli studi. Abituato per nascita ai terreni impervi e soprattutto al freddo, viene inviato a combattere sul fronte russo come sottotenente di artiglieria.

Mentre è a Ravenna in licenza però, l’8 settembre 1943 viene dichiarato l’armistizio: Bardi, come molti altri giovani, si unisce allora alle formazioni partigiane che operano sul Monte Falco, nell’Appennino tosco-romagnolo. Assume così il comando dell’8^ brigata Garibaldi, con il nome di “Falco”. In seguito prende il comando della 28^ Brigata GAP “Mario Gordini”, con cui nel dicembre del ’44 guida la liberazione di Ravenna.

“La Resistenza ci ha fatto acquisire la coscienza, direi, di una rivolta che continua sempre. - dichiara vent’anni dopo in un’intervista - ci ha impresso fino in fondo la volontà di superare sempre i limiti della società. Non ci si può ribellare solo a vent’anni: ciò non conta nulla, perché a vent’anni è naturale - confida - credo che lo spirito di rivolta un uomo se lo deve portare dietro tutta la vita". E questo spirito di ‘rivolta’ si traduce in un’urgenza di sperimentazione che lo accompagna in tutto il suo percorso artistico.

Alla fine della guerra Bardi si riavvicina alla sua prima grande passione, la pittura, frequentando lo studio di Teodoro Orselli e iniziando la collaborazione con l’Accademia delle Belle Arti di Ravenna. Poi viene trasferito a Terni, Faenza e infine a Venezia, dove entra in contatto con l’ambiente artistico della città.

Nel 1961 si trasferisce stabilmente a Roma e inizia a frequentare la Casa della Cultura di cui, a partire dal 1967, diviene direttore, mantenendo questo incarico fino alla morte, il 29 luglio 1984. Sotto la sua guida, l’istituto diventa un grande centro di riferimento del dibattito intellettuale internazionale. Per anni la Casa della Cultura è luogo assai vivace d’incontro tra i più noti letterati e intellettuali, centro di importanti iniziative in ogni campo, compreso quello delle istituzioni culturali cittadine, a cominciare dalla Quadriennale.

“Alberto le donava l’immagine di un luogo aperto, fuori da schemi politici o da dipendenze partitiche - rivela in un’intervista l’amico, lo storico Lucio Villari - era un luogo di libertà, dove si poteva parlare di tutto, su tutto e con tutti. Con estrema elasticità e apertura”. “Ricordo ad esempio che organizzammo una serata sul futurismo - continua Villari - quando parlare di Futurismo non era facile perché c’era quest’identificazione tra Futurismo e fascismo: partecipammo Moravia, Calvesi, io, Enzo Siciliano, e anche la moglie di Marinetti e le figlie.

La cosa sorprese sia il pubblico che la stampa, arrivò un attacco dal Corriere della Sera, secondo cui i comunisti si erano appropriati anche dei fascisti. Il clima era quello”. “Oppure ricordo una serata su Sartre, Garaudy e il socialismo - spiega ancora lo storico - proprio nel momento in cui Garaudy e Sartre si distaccavano dai comunisti filo-sovietici. Poi un’altra, che vide un dialogo sullo stalinismo tra Gilles Martinet - l’allora scrittore-ambasciatore francese in Italia - e Boffa, Pajetta e altri. Poi facemmo un incontro proprio nel momento in cui avveniva la ‘svolta’ del partito socialista con Craxi… non si capiva cosa sarebbe successo, allora proponemmo un dibattito tra Chiaromonte, Cicchitto, Craxi e Reichlin”.

In quel periodo, nel 1969, Ugo Gregoretti lo sceglie per interpretare un personaggio del film Apollon, la fabbrica occupata, dedicata alla lotta dei lavoratori della tipografia romana. Nel 1980 Bardi è il protagonista del documentario RAI di Florestano VanciniFragheto, una strage: perché”, dove insieme ad altri due ex partigiani affronta di persona, sul posto, lo scomodo confronto coi superstiti dell’eccidio nazifascista, a distanza di 36 anni.

L’esposizione ripercorre la ricerca dell’artista che, da una fase figurativa iniziale, passa negli anni Sessanta a una pittura più gestuale, in cui le figure si scompongono e le pennellate si fanno più rapide e aggressive, per passare poi a fine del decennio ad un ulteriore cambiamento in senso strutturalista; una pittura astratto-geometrica, basata sulla proiezione di forme essenziali e di colori riportati alla loro funzione primaria.

A metà degli anni Settanta, Bardi entra in una nuova fase, considerata dalla critica la più interessante e affascinante, ossia quella delle texture ottenute con un procedimento innovativo, attraverso un sistema di matrici pastellate.

Nella mostra sono esposti per la prima volta alcuni fogli di giornale, soprattutto L’Espresso, realizzati nella seconda metà degli anni ’60: pennellate rapide, di getto, nel tentativo di sintetizzare colori, gesto e istinto creativo. Non manca un’ampia documentazione fotografica, relativa agli anni in cui l’artista ricopre il ruolo di Direttore della Casa della Cultura di Roma.

Questa è la prima grande antologica che la città di Roma dedica al pittore, dopo quella realizzata nel Museo di Roma in Palazzo Braschi nel 1985, l’anno seguente alla sua scomparsa. Esposte fino al 31 marzo 2019 oltre settanta opere, tra le più rappresentative della lunga attività dell’artista, che iniziò ad avvicinarsi alla pittura sin da giovane, affiancando la carriera di pittore alla sua attività politica e di uomo di cultura.

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