Donne di ieri, donne di oggi: Sepe rilegge George Bernard Shaw

La professione della Signora Warren, caustica pièce vittoriana sulla condizione della donna. Meritato successo di pubblico per una regia matura e un grande cast di attori. Al Teatro Carignano fino al 18 gennaio.

14 gennaio 2015 11:28
Donne di ieri, donne di oggi: Sepe rilegge George Bernard Shaw
Giuseppe Pambieri e Giuliana Lojodice

TORINO - Due donne, madre e figlia, all’apparenza diverse per condotta (donna di vita la prima, impiegata integerrima la seconda), in realtà molto simili nella determinazione profusa nell’affermare giorno dopo giorno le proprie convinzioni, nel tentativo, convulso e disperato, di sfuggire alle convenzioni dell’Inghilterra vittoriana. Intorno a loro, una pletora di uomini, giovani e meno giovani, ricchi e spiantati, nessuno veramente sincero con sé stesso.

George Bernard Shaw scrisse La professione della signora Warren nel 1894, proponendo al pubblico una diversa visione della prostituzione: non un marchio d’infamia, bensì una condizione dovuta alla subordinazione della donna nei confronti dell’uomo. Giancarlo Sepe riprende questa pungente pièce e la trasporta nella nostra contemporaneità, in questo aiutato dalla sostanzialmente immutata mentalità maschile nei confronti della donna. Ancora oggi, purtroppo, l’idea della donna-oggetto è ancora ben radicata nell’immaginario maschile, sempre scettico verso una donna in carriera, con una sua indipendenza, e ben più abituato a pensarla confinata fra i lavori domestici e la camera da letto.

Decisa a far valere la propria bellezza, ma senza sottomettersi a nessuno, la giovane Kitty Warren (Giuliana Lojodice), donna bella e intelligente, capace amministratrice di sé stessa, è riuscita a garantire un’istruzione superiore alla figlia Vivie (Federica Stefanelli), e ad assicurarle un buon patrimonio. Ma quest’ultima, non conoscendo che superficialmente la condotta della madre, la disapprova. Quando la madre si reca a trovare la figlia, ne nasce un incontro-scontro cui assistono tre ex amanti di Kitty - Sir Crofts (Giuseppe Pambieri), il reverendo Gardner (Roberto Tesconi), Praed (Pino Tufillaro) -, e Frank, figlio del reverendo e amico di Vivie.

I quattro uomini - quasi un coro greco -, osservano, commentano, esprimono giudizi, raccontano episodi del passato della madre, rivelando l’inconscia complicità maschile che vede uniti nel fare la morale alle donne. A infittire le trame di quest’ambigua condotta, il dubbio se uno fra Crofts, Praed e il reverendo Gardner sia il padre di Vivie. Ognuno di loro lo nega, salvo poi posare sulla ragazza sguardi che potrebbero anche essere paterni, ma forse, più probabilmente, sono di desiderio, come a suo tempo fecero con la madre.

La relazione affettiva che lega Vivie e Frank, e il loro possibile matrimonio, è l’indiretto espediente drammaturgico che Shaw utilizza per approfondire il confronto fra madre e figlia, ognuna con proprie idee personali sul matrimonio, appunto. E non solo: Vivie si oppone al mondo vizioso della madre, a quello stile di vita basato sul piacere, e da ciò scaturisce uno scontro generazionale dove, paradossalmente, è la figlia ad essere più (intransigente) della madre. Ognuna, tuttavia, è convinta di ribellarsi al conformismo: la madre, a quello borghese, e la figlia al paradossale conformismo del vizio. Quando, a sera, si ritroveranno sole nell’appartamento della ragazza, in un intenso e struggente passaggio teatrale, Kitty narra alla figlia della sua vita di ragazza povera costretta a lavori umili, e della sua ambizione di una vita migliore, che pure le è costata dei sacrifici.

Ascoltando le sue parole, e le sue ragioni, Vivie vede cadere le sue certezze e il suo giudizio sulla madre subisce un drastico cambiamento: comprende, adesso, le scelte della madre, la sua forza morale, e sembra nascere un nuovo rapporto. Fino a quando, il giorno dopo, il subdolo Sir Croft, nell’ostinato tentativo di chiedere la mano di Vivie, le rivela la relazione d’affari che sussiste fra lui e sua madre; la donna è infatti socia nella gestione di alcune case chiuse in Austria, Belgio e Ungheria, e con i guadagni che le derivano ha potuto pagare gli studi della figlia e mandarle regolarmente un sostanzioso assegno mensile. Rinunciarvi nel nome della morale, significa essere veramente liberi, oppure essere vittime del pregiudizio sulla prostituzione, di quel pregiudizio nato da un equivoco?

Una pièce che è una storia al femminile sul tormentato rapporto madre/figlia, sul mancato riavvicinamento che ne fa due vittime della morale. Un’atmosfera chiarita sin dall’inizio, quando, dal palcoscenico ancora buio, giunge in platea una sottile nebbia, quella inglese, certo, ma anche la nebbia dell’ipocrisia di chi nasconde sé stesso. In particolare, è il caso del reverendo Gardner, che carca accuratamente di evitare qualsiasi accenno ai suoi trascorsi con la Signora Warren. Lo stesso reverendo, ha un rapporto difficile con il figlio Frank, ma sembra farne più una questione di apparenza che di vero affetto.

Il pungente e noncurante dialogo iniziale, fra Praed e Vivie, sull’importanza di essere non convenzionali, nasconde la falsità di quanto affermato pur in buona fede, poiché si fa della “naturalezza” un mero esercizio accademico. «Niente è più artificiale dell’essere naturali», come scrisse Oscar Wilde, contemporaneo di Shaw.

E in nome di questa naturalezza presunta, sia Kitty che Vivie saranno costrette a rinunciare al loro rapporto di madre e di figlia, chiuse nelle loro convinzioni che però, forse, sono imposte dall’esterno. Donne che si ritrovano sole, senza la comprensione di quegli uomini ai quali interessano o i loro soldi, o il loro corpo. E lo stesso Frank ha mire del genere su Vivie. Donne cui non rimane che contare su sé stesse, Kitty vendendo il suo corpo, Vivie lavorando dieci ore al giorno in uno studio legale londinese.

Giuliana Lojodice offre la superba interpretazione di una donna forte e volitiva, assennata nell’amministrare la propria bellezza, da sempre al di sopra della morale, e tuttavia indiscutibilmente mossa da amore materno in ogni sua scelta, operata con l’intenzione di creare una buona posizione alla figlia. Nonostante il ruolo complesso, la Lojodice affronta il palcoscenico con leggerezza, portandovi un dramma esistenziale facendolo però sembrare un romanzo d’appendice. Non c’è durezza nella sua voce, bensì una certa disincantata dolcezza, quasi la rassegnazione che viene con l’esperienza di vita.

Federica Stefanelli interpreta in maniera credibile una Vivie dalla sorprendente spigliatezza iniziale, ricca di certezze sulla madre e la sua vita. Il passaggio alla “nuova” Vivie, meno sicura del giudizio sulla genitrice, avviene con estrema naturalezza, segno evidente di maturità attoriale.

Giuseppe Pambieri, da parte sua, dà vita al perfetto gentiluomo vittoriano, forte della sua ricchezza per grazia della quale pensa che ogni porta gli sia aperta. Geloso del giovane Frank, si “prostituisce” davanti a Vivie chiedendola in moglie, rendendosi patetico nell’esaltare la sua modestia, e vantando poi la sua ricchezza, per finire rivelando alla ragazza il rapporto d’affari che ha con sua madre.

Fabrizio Nevola è un Frank spavaldo e ambizioso, un potenziale Ronnie Craig se fosse nata appena mezzo secolo dopo. Pino Tufillaro, nel ruolo di Praed, agisce quasi da coscienza critica, suggerendo ora a questo, ora all’altro personaggio, l’atteggiamento da assumere; ma lo fa con distacco, come se in realtà anche la sua fosse una posa, e poco lo coinvolgono la vicende altrui. Risulta simpatico, pur nell’ipocrisia che lo caratterizza, il reverendo Gardner interpretato da Roberto Tesconi, stretto fra i ricordi di gioventù, una moglie gelosa e un figlio che detesta.

La regia di Sepe, che lascia intendere un clima di sottile violenza, richiama alla memoria l’approccio di Peter Stein su Il ritorno a casa, una pièce che in un certo senso prosegue lungo la scia qui suggerita da Shaw. Del resto, la pièce è ancora oggi profondamente e drammaticamente attuale, perché la società occidentale del XX e del XXI Secolo, nonostante sia passata attraverso il ’68 e il femminismo, ancora non è riuscita a riconoscere alla donna la sua statura morale e intellettuale.

Per tacere della condizione della donna nel mondo musulmano.

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