Cento anni fa, la Grande Guerra. Ardengo Soffici e l’interventismo anti-tedesco

Un secolo fa, l’Italia entrava in guerra per compiere l’Unità attraverso la conquista delle terre Irredente. Da oggi, e per quattro mercoledì consecutivi, analisi, eventi e personaggi, di un conflitto che ha cambiato l’Europa. Nel dibattito che divideva gli interventisti dai neutralisti, s’inserì il pittore e intellettuale Ardengo Soffici, sostenendo la tesi di un impegno italiano contro la Triplice Alleanza, in chiave principalmente anti-tedesca.

05 agosto 2015 09:50
Cento anni fa, la Grande Guerra. Ardengo Soffici e l’interventismo anti-tedesco
Ardengo Soffici in divisa da Ufficiale nel 1915

ROMA - A morire, in quell’ultimo scorcio di Ottocento, non fu soltanto Dio, come aveva annunciato la rivoluzionaria filosofia di Nietzsche; nonostante le apparenze, morì un po’ anche l’uomo, che si staccò definitivamente da quelle millenarie radici arcaiche rurali, sulle quali, sino ad allora, si era retta l’umanità, e quindi anche la società occidentale. Si trattò di una vera e propria crisi spirituale che vide l’Europa a una svolta cruciale della sua storia, incalzata da un lato dal progresso tecnologico e scientifico - sono di questo periodo, ad esempio, le teorie di fisica quantistica di Max Planck che apriranno la strada alla teoria della relatività di Einstein, così come l’automobile, i cibi in scatola, il telefono-, e da un clima politico particolarmente caldo dall’altro; un viscerale antisemitismo serpeggia nel Vecchio Continente, rinverdito dall’affaire Dreyfus, la politica colonialista assoggetta senza scrupoli i continenti asiatico e africano, mentre le inimicizie dei secolari Imperi Centrali danno fuoco alle polveri nella regione balcanica.

In poche parole, si stanno gettando le basi per quell’instabilità politica e sociale che segnerà il secolo successivo.

Come scrisse il poeta e filosofo cattolico Josè Bergamin (1895-1983), «Lucifero è la volontà di non essere, volendo esser tutto». A questo si ridurrà l’uomo moderno, e ne vedremo il caso limite pochi decenni dopo, con Adolf Hitler. Ma anche senza spingersi verso tragici paradossi, è innegabile che l’atteggiamento dell’uomo nei confronti dell’esistenza, cambi radicalmente; lo pervade una scontentezza di dimensioni bibliche, un senso del negativo che sfiora il misticismo, e Sartre, da ateo dichiarato, sarà il sacerdote di questa nuova dottrina.

E, sia detto per inciso, la contro-cultura, quella della contestazione degli anni Sessanta, nasce in questo clima di smantellamento della civiltà rurale e cattolica europea, con i suoi valori riassumibili in Dio, Patria e Famiglia, o meglio, nasce dal fraintendimento scaturito dalla ridefinizione di questi valori, e dal loro rifiuto demagogico. Il relativismo sessantottino è figlio bastardo e snaturato di Nietzsche, di Baudelaire, di Beckford.

Gli intellettuali che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, erano nel pieno della giovinezza o della maturità, furono parte attiva di quel malessere che percorreva l’Europa, un malessere misto all’ebbrezza delle grandi imprese, alla febbrile voglia di novità, di stravolgimento, quasi una cavalcata a testa bassa contro le fiamme dell’Inferno. E le cariche di Cavalleria della Grande Guerra contro i reticolati, di fatto coglievano appieno la metafora.

Nell’ottica di una ridefinizione del rapporto dell’intellettuale e dell’artista con l’esistenza, Ardengo Soffici (1879-1964) - pittore, scrittore, saggista, critico d’arte -, sviluppa un sentire artistico di caratura “totale”, sulla scorta dell’avventura sentimental-poetica, al limite del leggendario, del suo collega d’Oltralpe Arthur Rimbaud (1854-1891), e che troverà in Louis-Ferdinand Céline il più completo continuatore. Il mondo dell’arte si sentiva a suo modo coinvolto nel progresso tecnologico, cogliendovi le possibilità di un rinnovamento delle sue forme espressive.

Ma la questione non si fermava all’estetica: la potenza della tecnologia offriva il destro per l’espressione di una vera e propria potenza fisica e morale (teorizzata compiutamente dal Super-Uomo di Nietzsche), che ispirava grandi imprese. Lo scivolamento nella politica e nell’arte militare, ne erano l’ovvia conseguenza, essendo questi i campi che garantivano ampio raggio per un’azione gloriosa, sulla scorta delle imprese dei grandi eserciti del passato, su tutti quelli napoleonico e prussiano.

Alla radice di questa attrazione per le imprese militari, le teorie di Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz (1780-1831), generale, scrittore e teorico militare prussiano, che nell’opera Della guerra (uscita postuma nel 1832), fu il primo a prendere in esame l'importanza del sentimento bellico, dell'animo del comandante, dei soldati e del popolo. In pieno fulgore romantico, l’impeto militare è associato alla guerra intesa come “scienza del combattimento”, regolata da precise regole del rispetto dell’avversario, che trovano linfa nel cosiddetto onore militare. Condizioni perché si formi il mito dell’Eroe, di colui che è pronto a morire per la Patria, in nome appunto del nazionalismo.

È su questo nascente atteggiamento che ritrova attualità la lezione di von Clausewitz, corroborata dal già citato Nietzsche, che aggiorna la figura dell’Eroe a quella di Super-Uomo.

In una simile euforia artistica, la Prima Guerra Mondiale venne salutata quale occasione per trovarvi quegli allori che sarebbero stati il degno coronamento di una vita “sopra le righe”, grazie a quel clima «meno ipocrita e meno borghese» imposto dalle dure condizioni della trincea, un’occasione per mettere alla prova la letteratura con la vita, per poter finalmente incidere con decisione sul corso degli eventi. Eventi che si fanno appunto presagire con una certa urgenza sin dall’avventura di Libia del 1911, che aveva cominciato a smuovere le coscienze nazionaliste italiane, dando nuova linfa anche all’Irredentismo.

Da parte sua, sin dal 1913, dalle pagine della rivista Lacerba - fondata a Firenze il 1 gennaio di quell’anno assieme a Giovanni Papini -, Ardengo Soffici dichiara in maniera netta la sua adesione al nazionalismo. Nell’unico intervento politico sin allora ospitato dalla rivista (sul numero 20 del 15 ottobre), il - Programma politico futurista, seguito da una Postilla del neofita futurista Papini -, Filippo Tommaso Marinetti, con l’entusiastica approvazione di Soffici, rivolge un vibrante appello agli elettori affinché prendessero le distanze dalle liste clerico-liberali-moderate di Giovanni Giolitti e dal programma democratico-repubblicano-socialista. Questi i punti principali, espressi da Marinetti: «La parola Italia deve dominare sulla parola libertà.

Tutte le libertà, tranne quella di essere vigliacchi, pacifisti, anti-italiani. Una più grande flotta e un più grande esercito; un popolo orgoglioso di essere italiano, per la Guerra, sola igiene del mondo e per la grandezza di un'Italia intensamente agricola, industriale e commerciale. Difesa economica e educazione patriottica del proletariato. Politica estera cinica, astuta e aggressiva. Espansionismo coloniale. Liberismo. Irredentismo». È soprattutto quest’ultima parola a spiegare la necessità di un simile atteggiamento politico, improntato all’azione bellica per completare l’Unità italiana e rompere definitivamente il giogo dell’occupazione austro-ungarica. Ma per combattere una guerra in Europa, ci voleva un’Italia ben determinata, caratteristica che mancava completamente al moderato Giolitti. L’esito delle elezioni non fu però favorevole alle posizioni espresse da Lacerba, perché il fronte giolittiano ottenne un ampio consenso, dovuto anche all’aver introdotto, con il precedente Governo, il suffragio universale maschile, che concedeva il diritto di voto a larghe fasce della popolazione di ceto meno abbiente, sin lì escluse dalla vita politica nazionale.

Era logico che queste orientassero il loro primo voto verso chi le aveva “emancipate”, lontane com’erano, per ovvia deformazione della società italiana, dall’immaginare la possibilità di un impegno oltre confine. Un atteggiamento contro il quale, come vedremo, Soffici inveirà con veemenza.

All’indomani della dichiarazione di guerra alla Serbia da parte dell’Austria, Lacerba si getta immediatamente nel dibattito tra interventismo e neutralità, come Soffici aveva puntualmente suggerito al collega: «Carissimo, gli avvenimenti che si svolgono in questo momento in Europa sono troppo gravi per poter fare a meno di occuparsene. […] Credo dunque che Lacerba dovrebbe pigliar parte in qualunque modo alle manifestazioni spirituali del momento».

E infatti, a partire dal numero 16 del 15 agosto 1914, l’impostazione editoriale abbandona il disimpegno politico precedentemente espresso, per un forte entusiasmo politico interventista, consacrando alla politica l’intero contenuto, per riprendere l'«attività teoretica e artistica a cose finite» (di fatto, l’attività di Lacerba, interrotta come vedremo con l’entrata in guerra dell’Italia, non riprenderà dopo il conflitto, per le mutate condizioni socio-culturali, che videro il reflusso dell’Avanguardia, e il “ritorno all’ordine” dello stesso Soffici). Ma intanto, appaiono violenti articoli attivistici contro il governo “vile” e verso i “piagnoni” neutralisti e socialisti.

Disgustato dalla mediocrità politica e sociale dell’Italia di Giolitti, Soffici cerca una realtà ben diversa, che nasca dalle ceneri di un profondo sconvolgimento quale appunto soltanto la guerra può portare; è attratto dalla dimensione epica della guerra, dove poteva trovare sfogo un’intera generazione di artisti, cresciuta nella convinzione della “morte di Dio”, nel mito della modernità e del Superuomo. Uno stato d’animo che non manca di esternare su Lacerba: «Socialista, neutrale, intervenzionista o indifferente, il pubblico italiano è anzitutto incosciente e nullo. Una piccola, pidocchiosa vita poveramente vissuta senza rischi e senza eroismi è il suo sogno supremo».

Soffici auspica che l’Italia intervenga nel conflitto con eroico sforzo militare sul Carso e in Trentino, convinto del suo ruolo determinante per la vittoria della Triplice Intesa, e resta quindi profondamente deluso dal tiepido atteggiamento di Giolitti, incline alla neutralità. Ma al di là delle questioni legate all’irredentismo, la novità dell’atteggiamento di Soffici sta in un interventismo in chiave spiccatamente anti-tedesca, mentre la stampa italiana vedeva nell’Impero Asburgico il solo nemico da combattere.

A differenza di questa, e di tutto l’orientamento interventista italiano - racchiuso in un’ottica strettamente “localista” -, il ragionamento di Soffici muove verso considerazioni di respiro europeo, poiché immagina, all’indomani del conflitto, una Germania che avverserebbe le mire espansionistiche italiane: «È la Germania che agogna e vuole Trieste, Pola, Fiume, il dominio sull’Adriatico. È la Germania che vuole Salonicco e l’Egeo», e più avanti la definisce un Paese «organismo di forze brute formidabili, incivili, indirizzate contro la libertà dei popoli d’Europa».

Con simili parole, Soffici adombra il rischio che, anche in caso di una sconfitta austriaca e dell’ottenimento del Trentino, la Germania troverebbe un facile pretesto nello status di città libera assegnato a Trieste, per provocare l’Italia e trascinarla in un nuovo conflitto. Quindi, Soffici dà per certa la fine degli Asburgo, mentre ipotizza l’esistenza dell’Impero tedesco anche nel dopoguerra (sempre che l’Italia non si decida a intervenire). Particolarmente inquietanti, però, suonano le sue parole a proposito delle forze brute che avversano la libertà, parole che troveranno tragica attuazione negli anni della dittatura nazista.

Saranno infatti le durissime condizioni di pace imposte dall’Intesa all’ormai ex Impero del Kaiser, a scatenare

Ma intanto, sul finire del 1914, per dirla con Manzoni, “l’è chiara che l’intenderebbe ognuno”: l’intervento italiano permetterà in primo luogo di chiudere onorevolmente la questione dell’Irredentismo, e, in secondo, di liquidare la Germania ponendo le basi per il dominio di Roma nei Balcani e nell’Egeo. Le terre irredente verranno onorevolmente riscattate dalla dominazione austro-ungarica, mentre per quanto riguarda la questione del dominio in oltremare, la Storia ci riserverà un trattamento meno favorevole.

Lo stesso Soffici spiega la sua avversione per la Germania in modo, se vogliamo, appena pretestuoso: nel clima di fiducia e speranza portato dal progresso tecnologico e scientifico, che a sua volta aveva aperte le porte all’ottimismo della Belle Époque, («poche questioni ci sembravano ormai, se non insolute, insolvibili»), ai primi del Novecento, a suo dire, l’Europa sembrava aver raggiunto una particolare maturità sociale e politica, tale da non considerare più la guerra un mezzo degno della dialettica politica fra Stati, e la disciplina civile e militare apparivano concetti desueti.

A rompere questo clima di concordia, quella che Soffici definisce “l’imbecillità tedesca”, che offusca il progresso sociale con il nazionalismo e la violenza. Il clima bellico che dal 1914 si respira nel Continente, è l’ovvia conseguenza della provocazione tedesca, così come il ritorno di concetti quali patria, disciplina, militarismo: «L’Europa, insomma, pensa, parla ed opera in un modo che i suoi nemici le hanno imposto».

Ottenere Trento e Trieste per via di accomodamenti diplomatici, e in cambio della neutralità, costituirebbe per l’Italia un’ineffabile bassezza, oltre a macchiarsi di vigliaccheria per non aver contribuito alla definitiva liquidazione della Germania. In quest’ottica, con provocatorio paradosso, dalle pagine di Lacerba del 27 marzo, Soffici ammira l’atteggiamento dell’Austria, che continua a negare all’Italia ciò che questa non riesce a strapparle con le armi.

Come tutti i periodi di crisi, anche in quel primo scorcio di Novecento non mancavano le contraddizioni, perché la ripugnata guerra come mezzo dialettico fra popoli, è adesso la benvenuta per strappare alla Germania il possibile dominio sull’Europa. Lo stesso Soffici non è, come abbiamo visto, immune dal cadere in un comportamento non coerente. In realtà, quest’ambiguità è probabilmente dovuta alla necessità di non concordare troppo con l’atteggiamento bellicista dei Futuristi, con i quali, proprio sulle pagine di Lacerba, sul finire del ’14 c’era stata una violenta polemica, attraverso la quale Papini e Soffici li accusavano di “modernolatria”. Ma con il progredire dell’anno 1915, e il crescente atteggiamento neutralista del governo, Soffici si schiera sempre più su posizioni decisamente belliciste, rivelando quindi l’urgenza di coronare con l’azione una vita dedicata all’arte.

A ridosso dell’entrata in guerra, Soffici è tra i firmatari dell’appello apparso su Lacerba il 15 maggio, in cui si ribadisce con forza la necessità di dichiarare guerra agli ex alleati della Triplice, e si incita il popolo a sollevarsi contro Giolitti e la sua pavida neutralità. Preso dall’euforia del clima che vede gli interventisti ormai trionfanti, con fare tutto italiano, Soffici contraddice quanto affermato pochi mesi prima circa le responsabilità della Germania: «Sebbene, indirettamente, l’Italia è stata quella che ha aperto con la guerra di Libia la presente conflagrazione capace di dare all’Europa un assetto più normale e soddisfacente, tutto fa credere che l’Italia, con la guerra imminente, potrà determinarne la fine».

A ben guardare, la sbandierata concordia europea guastata dall’atteggiamento tedesco, è anche una scusa di comodo per giustificare in primo luogo le malaccorte mosse di politica estera dell’Italia, e in secondo i suoi tentativi di atteggiarsi a potenza militare di primo piano. Poco oltre, il nazionalismo di Soffici emerge nel severo commento ai tentativi diplomatici di Giolitti, intenzionato a risolvere la questione dell’Irredentismo per via diplomatica: «Leggo e mi vengon raccontate assurdità schifose a proposito del Bülow e dell’offerta del Trentino che l’Italia accetterebbe come pourboire per la sua vigliaccheria.

È possibile una tale infamia? […] Quel Giolitti può essere ignobile davvero. […] La vile canizza giolittiana, l’ignobile, losco, vomitativo Giolitti, gli analfabeti dell’Avanti, i preti, i giornalisti venduti, i generali bulowiani, […] con che moneta pagheranno prossimamente, quando l’Italia […] troverà il momento di fare i conti con essi?».

Come si può notare, l’atteggiamento interventista di Soffici cade in marchiane contraddizioni, che sono il frutto, tuttavia, di una mentalità tutta italiana (almeno dell’epoca), cui ancora manca dimestichezza sia con il senso dello Stato che a sua volta sviluppa un coerente pensiero, sia con l’idea di un’Italia veramente indipendente dalle influenze straniere; non si spiega altrimenti il dover pensare l’azione italiana in subordinazione all’altrui agire, così come il ricorso a macchinose giustificazioni che, paradossalmente, rivelano tutta l’insicurezza con cui l’Italia muove i suoi passi in politica estera.

A dichiarazione avvenuta, sull’ultimo numero di Lacerba, Soffici si congeda dai suoi lettori con veemente entusiasmo: «È difficile per ora calcolare la portata di questo atto che mette senz’altro la nostra nazione (sic) all’avanguardia dell’Europa: rallegriamoci intanto dei primi resultati. Giovanni Giolitti l’infame ruffiano, il famoso ladro, il sicario della barbarie, è stato debellato. […] Alleggerita di questa zavorra, l’Italia nuova, la vera […] potrà finalmente respirare ed agire».

Pochi giorni dopo, coerentemente con quel fuoco dell’amor di Patria che ardeva in lui, Soffici partì volontario, e operò presso il Comando della Seconda Armata in qualità di ufficiale addetto alla propaganda, un’esperienza della quale ci ha lasciato gli scritti Kobilek, e La ritirata dal Friuli. A onore del vero, al relativo riparo degli alti comandi, impiegò al fronte un po’ meno di quella determinazione guerriera che aveva espressa dalle pagine di Lacerba. Ma questa è un’altra storia.

Niccolò Lucarelli

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