Boldini e De Pisis, le anime di Ferrara fra la Belle Époque e il Novecento

Dopo i giorni difficili del terremoto del 2012, l’arte torna a vivere al Castello Estense, che ospita un’ampia scelta di capolavori dei due artisti ferraresi. Tutte le informazioni sui giorni e gli orari di visita, i prezzi dei biglietti, le riduzioni e le convenzioni, al sito www.castelloestense.it.

30 gennaio 2015 22:17
Boldini e De Pisis, le anime di Ferrara fra la Belle Époque e il Novecento
Giovanni Boldini - Signora in rosa

FERRARA - Dopo le ferite del terremoto del 2012, che ha causati gravi danni a Palazzo Massari, sede della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, una vasta scelta delle oepre di Giovanni Boldini e Filippo De Pisis saranno comunque visibili nella prestigiosa sede del Castello Estense, che in tal modo implementa il suo ruolo culturale all’interno della città, ed è al centro di un dibattito civico per l’ampliamento delle sue funzioni, in un momento che vede la città di Ferrara tornare ai livelli pre-crisi in fatto di presenze turistiche e visitatori dei musei. Segnali importanti, in un’Italia che troppo spesso dimentica l’importanza del suo patrimonio culturale quale fattore cardine per la ripresa economica.

L’arte per l’arte. Il Castello Estense ospita Giovanni Boldini e Filippo De Pisis - a cura di Maria Luisa Pacelli, Barbara Guidi e Chiara Vorrasi -, va oltre il concetto di mostra temporanea, trattandosi di un allestimento di lungo periodo in attesa della ristrutturazione della GAMC, e sin dal titolo chiarisce la volontà di far godere ai visitatori, ferraresi e non, della bellezza artistica che scaturisce da queste opere, a ribadire l’importanza del diffondere la cultura del bello, valore non trascurabile del senso civico.

Ripercorrere le parabole artistiche di Boldini e De Pisis significa avventurarsi in quasi cento anni di storia del costume e del pensiero europeo, dagli anni Settanta del XIX Secolo alla prima metà del XX, dall’epopea dei grandi Imperi, di un’Europa in gran parte ancora agricola e della nobiltà basata sull’onore, all’Europa industrializzata e della corsa agli armamenti che porterà agli orrori della Seconda Guerra Mondiale, passando per la Grande Guerra e la scoperta dell’angoscia. Due autori molto diversi fra loro che hanno raccontata questa contraddittoria società, e osservare in sequenza le loro opere permette di capirne meglio le evoluzioni.

Giovanni Boldini (1842 - 1931), dopo l’apprendistato nello studio di Girolamo Domenichini, gli studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, e le frequentazioni dei Macchiaioli, ottiene definitiva consacrazione a Parigi, negli anni Settanta dell’Ottocento, quando si lega al più importante mercante d’arte francese, Goupil. Sarà lui a metterlo in luce presso le grandi famiglie aristocratiche e alto-borghesi, garantendogli così fama e ricchezza. Da un punto di vista stilistico, Boldini affinò il suo stile sia guardando all’esperienza degli Impressionisti, in particolare Degas (al quale renderà omaggio ne La tavola del pittore, natura morta caratterizzata dal taglio “di sbieco”), sia rifacendosi alla solennità di Velazquez.

Sublime pittore del corpo, Boldini è stato uno splendido, sensuale cantore della Belle Époque, dove l’estetica sembrò prendere il sopravvento sulla realtà quotidiana e per dimenticare la crisi economica e la recente guerra franco-prussiana, l’aristocrazia e l’alta borghesia europee si gettarono nei piaceri del lusso e del divertimento, seguite, anzi probabilmente precedute, dagli artisti, Gautier e Baudelaire in primis. Delusi dall’esperienza della ribellione romantica, poeti, pittori, musicisti, si danno all’estetica pura, e quando si tocca la realtà più cruda, lo si fa per fissare nella creazione artistica il piacere; bevitori d’assenzio, ballerine, prostitute, sono i personaggi caratteristici della Ville Lumière come delle altre capitali europee.

Esistenze sociali eclettiche e magari anche scandalose, ma comunque parte indiscussa di quel grande spettacolo di cui la pittura riflette gli umori. Nobili e borghesi, tutti insieme sotto le luci della vita cittadina, resa ebbra dalle nuove scoperte tecnologiche quanto dal teatro e dai caffè aperti tutta la notte.

E Boldini, con la sua visione glamour della società ispirata dalla ritrattistica di Reynolds e Gainsborough, - con leggere influenze impressioniste -, interpreta al meglio la grazia, la sensualità, l’eleganza della Belle Époque attraverso le sue dame aristocratiche. Ne è un esempio, la Donna in nero che guarda il “Pastello della signora Emiliana Concha de Ossa”, dipinto a Parigi, uno degli esperimenti pittorici più interessanti dell’artista, che affronta il tema del doppio non più con il tradizionale specchio, ma facendo sì che la donna ammiri il suo stesso ritratto.

Tuttavia, poiché la donna è di spalle, si può anche fantasticare che non sia la stessa del ritratto, ma un’altra, la cui posa attenta, quasi sussiegosa, la rivela concentrata a studiare una possibile “rivale” per trovarne difetti o mancanze, in un impeto di invidia squisitamente femminile. La grandezza artistica di Boldini sta infatti nell’aver saputo sintetizzare sulla tela quell’eleganza femminile senza la quale la Belle Époque non sarebbe stata così belle: Fuoco d’artificio, ritratto a figura intera di una dama avvolta in uno scintillante abito di seta bianca e le braccia inguainate in lunghi guanti dello stesso colore.

L’alto chignon dell’acconciatura, il rossetto e la cipria del trucco, richiamano la moda giapponese, che all’epoca cominciava ad essere studiata in Europa. Per un poetico tocco del fato, il titolo riassume concettualmente quella che fu l’essenza della Belle Époque, l’ultima epoca spensierata della modernità - dandistico addio all’Ottocento con quasi vent’anni di ritardo -, un ballo in gran pompa, splendente quanto un fuoco d’artificio, appunto, prima che la realtà irrompesse con le tragedie delle due Guerre Mondiali, dei totalitarismi e della Guerra Fredda (per limitarci al solo Novecento).

Tanta la maestria, ma anche la galanteria, che Boldini profondeva nel ritrarre le donne, rendendole più esili e aggraziate di quanto non fossero in realtà, che le nobildonne e le dame della borghesia smaniavano per essere ritratte da lui, capace di guardare quelle donne non come erano davvero, ma come pensavano di essere. E l’arte si fa sublime gioco di specchi, bonario inganno dell’occhio ma che sicuramente riempie il cuore a guardarlo.

Pittore d’atelier, che ne fa una sorta di salotto come si conviene ai veri mondani, si spinge al punto da ritrarlo quale soggetto principale delle sue opere, o comunque raffinata cornice per affascinanti scene di generi, come La cantante mondana (1884), olio su tela d’influenza impressionista, che riecheggia l’atmosfera dei cafés chantants, dove la protagonista della scena dà le spalle a chi osserva e con la mano sinistra si aggiusta la gonna dell’abito, un gesto in un certo senso commovente nel suo pudore, paragonabile a quello della Donna che si infila una calza, dipinto dieci anni da Toulouse Lautrec, altro grande interprete della Belle Époque.

Al di fuori della sensuale, scintillante mondanità parigina, il pittore ferrarese sa regalare anche momenti d’intima poesia, come accade nella splendida Marina a Venezia - la cui leggerezza dei colori risente da vicino della pittura giapponese, impalpabile come un fukusa -, e che mantiene intatto il fascino della laguna attorno alla Serenissima, con quel cielo di madreperla che incantò Oscar Wilde. Così come affascinante è la Parigi da lui immortalata, quella dei Grand Boulevards sfavillanti di luci e percorsi da carrozze e folle variopinte, (La passeggiata al bois, dove spicca una coppia che non sarebbe dispiaciuta al mondano Robert de Montesquiou). 

Boldini scomparve a Parigi l'11 gennaio 1931, e la città intera gli tributò il suo omaggio. Tuttavia, non volle far torto alle sue origini, e per sua volontà la sua salma fu tumulata accanto ai genitori nel cimitero della Certosa di Ferrara.

Diversa la parabola di Filippo De Pisis (1896 - 1956), le cui opere sono ospitate nei cosiddetti Camerini del Principe, aperti per l’occasione. Allievo a Ferrara di Odoardo Domenichini, assorbe la lezione della Metafisica di De Chirico, gli Impressionisti, e la tarda Secessione Romana, e avvia nel corso degli anni Venti un personalissimo stile che ne fa un pittore non etichettabile. Il percorso a lui dedicato si apre con La bottiglia tragica (1927) e Natura morta col martin pescatore (1925), vicine al Cubismo per atmosfera, ma ancora legate allo stile del tardo Impressionismo di matrice cézanniana.

Una breve frequentazione della Metafisica, riletta a suo modo, la si ritrova nella tela Le cipolle di Socrate (1927), un quadro onirico e intellettuale insieme, apparentabile a una poesia di Blaise Cendrars. A questi approcci, seguì una fase di riscrittura del genere della veduta, attraverso scorci parigini dipinti nel corso dei suoi soggiorno nella Ville Lumière, nel corso degli anni Venti, quale La Coupole (1928). Lo stile, inizialmente compatto, si sfalda in pennellate vibranti, e l’artista raggiunge la piena maturità nel corso degli anni Trenta, quando il suo pennello diviene una penna con cui scrivere emozioni, prendendo a modello soggetti naturali come i fiori - Il gladiolo fulminato (1930) -, o gli animali - La lepre, (1932), un omaggio a Chardin, riconoscibile per gli occhiali a pince-nez in primo piano.

Chardin, conosciuto anche come “il pittore del silenzio”, è noto per la dimensione intima delle sue tele, una dimensione che fu propria allo stesso De Pisis, e che emerge in particolare nelle nature morte delle marine ferraresi, o in tele come La falena (1945), paragonabile a una poesia visiva sulla fragilità. Un sentire che il pittore conosceva sin troppo bene, minato com’era da una malattia nervosa che lo logorava sin dall’infanzia, e che lo porterà alla morte appena sessantenne, nel 1956.

Forse anche per questa sua fragilità, che sovente ricorre nelle sue opere, unita a una sorta di plumbea atmosfera, De Pisis è artista che lascia sensazioni contrastanti, difficile da ammirare con entusiasmo, così come difficile da ignorare. Anni non facili, i suoi, stretti fra due guerre, con l’Italia oppressa dalla dittatura fascista, anni forse troppo duri per il suo carattere portato alla malinconia. Ma è anche attraverso la sua opera che giunge a compimento un percorso che dall’Ottocento accompagna il pubblico fino a quel Novecento sperimentatore che ha segnato il passaggio alla contemporaneità; le sue angosce e le sue problematiche emergono nella atmosfere ora cupe ora freddamente grandiose che guardano al passato come un mito e un modello, ma con, sullo sfondo, la dimensione violenta di un periodo, gli anni Venti e Trenta, segnati dall’oppressione politica e dall’inquietudine. Quasi come nel Duemila.

Foto gallery
In evidenza