Biennale: gli incerti futuri di Enwezor

Una debole curatela caratterizza il Padiglione Centrale, trasformato in una sorta di coacervo primitivo che non riesce a riassumere “lo stato dell’arte”. S’indulge troppo in tecnologia, senza che si riescano a trovare soluzioni veramente nuove. Dal 9 maggio al 22 novembre 2015. Tutte le informazioni al sito www.labiennale.org.

08 maggio 2015 23:18
Biennale: gli incerti futuri di Enwezor
Walead Beshty - ¡La Voz de Jalisco El Periodico Que Dice Lo Que Otros Callan Más Noticias Más Deportes! (Miércoles, 7 Agosto 2013 Metro, La Prensa Jalisco, Express Guadalajara), 2013. Courtesy: Biennale di Venezia

VENEZIA - La crisi di una società la si misura anche dall’affievolirsi del suo impeto creativo, essendo l’arte, da sempre, sia l’ideale traduzione grafica dell’evoluzione del costume e del pensiero, sia anche l’anticipatrice di nuove tendenze. Se incorre in un’impasse, probabilmente anche il resto del corpo sociale lamenta qualche problema. Osservando con attenzione la scena artistica contemporanea, si colgono evidenti segnali di crisi per mancanza d’idee che sappiano andare oltre le ormai logore istallazioni tecnologizzate e le performance, a uso e consumo di un mercato dell’arte fatto di snobismo e pacchianeria. Se da un lato c’è una società in continua tensione, a causa della guerra al terrorismo, del ritorno di malattie che si pensava debellate, dei disordini sociali portati dalla crisi economica, dall’altro sembra mancare quell’energia vitale che in passato ha spinto gli artisti a rappresentare con efficacia queste tensioni (un esempio su tutti, il gruppo modernista catalano negli anni difficili della Barcellona del primo Novecento) e a immaginare innovativi stili espressivi, quando ancora, però, l’arte era ancora questione di manualità, di rapporto diretto con la materia, e quindi, per estensione, con la realtà.

L’impressione è che l’arte contemporanea ceda troppo facilmente alla tentazione e alla moda della tecnologia, con l’ “artista” relegato al rango di assemblatore di materiali, tecnico del suono o delle luci, perdendo però quel diretto contatto con la materia, sia essa la tempera dei pittori o il bronzo degli scultori. Ciò che troppo spesso viene accettato come opera d’arte, non porta al suo interno quel fuoco creativo che scaturisce dalla materia modellata con scalpello e bulino, o dalla tela affettuosamente accarezzata con il pennello, schiarendo o scurendo questa o quella tonalità.

Aggirandosi nel caos del Padiglione Centrale, che ospita All the World’s Futures, la mostra dei singoli artisti curata da Okwui Enwezor, si è colti dalla fastidiosa delusione della ripetizione, sintomatica di una crisi dell’arte che si trascina da decenni.

Ovviamente, sul piano etico rispettiamo le scelte del curatore, ma da un punto di vista critico non ci appaiono condivisibili, sia per il tagli didascalico dato alla mostra, sia per l’approccio che vi sottende. Quel voler mostrare lo “stato delle cose”, per riprendere l’espressione dello stesso Enwezor, si perde nella sua propria vastità, sia tematica sia concettuale: le modalità scelte dagli artisti per raccontare la realtà, e parlare al pubblico. Ma la realtà contemporanea, come un prisma quasi infinito, possiede miliardi di sfaccettature fra loro eterogenee, caratteristica che si trasferisce inevitabilmente nella mostra.

I 136 artisti “scelti”, non dialogano fra loro, e il pluralismo di voci invocato da Enwezor è in realtà un consesso tribale, un disordinato, malassortito magazzino di un teatrino di terz’ordine, dove le problematiche dell’umanità - guerre, razzismo, disastri ambientali, crisi economica -, sono raccontate senza originalità: banali fotografie di vita quotidiana, istallazioni alla ricerca di improbabili e cervellotici collegamenti con la filosofia, caos spacciato per gesto politico,

In una cosa, però, la mostra ha un certo fascino, forse non direttamente cercato: fra luci, suoni, colate di cemento, mucchi di pietre, agglomerati di ferraglia, sembra quasi di aggirarsi sulla Terra dell’epoca del Pliocene, quando i continenti, le montagne, i ghiacciai, le foreste, gli oceani, ancora stavano prendendo forma. Una natura che ancora si ritrova in certe zone dell’Africa, e che probabilmente fa è parte inscindibile del DNA di Enwezor. In seconda lettura, la mostra è anche metafora del caso geopolitico che regna a livello internazionale.

E forse per la prima volta nella storia moderna, l’arte non ha la capacità di andare oltre, di rompere il predominio di logiche politiche e di mercato, anzi sembra asservirsi completamente, almeno a queste ultime. Una diffusa superficialità concettuale la caratterizza, incentivata dall’acriticità di un pubblico che ha persa l’abitudine ad andare oltre l’apparenza, rimanendo appagato, ad esempio, da una serie di luci luminose o un ammasso di ferraglia ritorta, oppure accetta la tesi secondo cui l’intelligenza di un’opera d’arte risiede nella sua cripticità, nessuno avendo la decenza di puntare il dito contro l’eventuale “re nudo”, al contrario accogliendo come arte qualsiasi manifestazione che appaia fuori degli schemi (o della logica).

Alla debolezza dell’esposizione crediamo abbia contribuito anche l’approccio acritico adottato da Enwezor nel selezionare gli artisti; il non aver voluto esprimere giudizi sull’arte, ma semplicemente “convocare le arti e gli artisti da tutte le parti del mondo”, ci sembra una posizione estremamente passiva, che sminuisce quella che dovrebbe essere la figura del curatore con le sue “responsabilità” nello scegliere gli artisti, e il suo dovere morale di lasciare un messaggio, in particolar modo da un palcoscenico prestigioso com’è la Biennale di Venezia. Invece, la passività dimostrata nella mancata scelta di un tema ben identificabile, ha caratterizzata questa 56esima edizione con un quasi indescrivibile caos di luci, suoni, fotografie, video,

A niente serve citare nomi e titoli, in una mostra deludente, dove, dei nuovi spunti declamati da Enwezor, ispirati dalle problematiche di cui sopra, non ci è sembrato di ravvisare traccia. Fra la miriade di pezzi ammassati all’Arsenale, il visitatore si stanca presto, e quasi preferirebbe guardare la folla attorno a sé non fosse che “è spiacevole quando a una mostra ci sono troppe persone da non poter vedere i quadri, ma è ancora più spiacevole ci siano troppi quadri da non poter vedere le persone”.

Inutile il dotto richiamo all’Angelus Novus di Klee, per mascherare una curatela povera d’idee, che raccoglie materiale estremamente ripetitivo, quasi che il mondo dell’arte fosse affetto dalla medesima serialità dell’industria consumistica. Per cui, la capacità rappresentativa dell’arte si è fortemente ridotta, spingendosi a un’astrazione estrema; oppure, nel caso si abbia a che fare con il figurativo, la tendenza è quella della riproduzione tecnologica di un’immagine già esistente (anche opere d’arte del passato), e l’intervento dell’ “artista” si riduce alla digitalizzazione, aggiungendo elementi di contorno. Questo, in nome di un superficiale dialogo fra il presente e il passato. Mancano, si direbbe, artisti che abbiano sviluppata una reale forma rappresentativa della realtà quotidiana.

Il “parlamento delle forme” immaginato da Enwezor, alla stregua del Palazzo Enciclopedico di Gioni (del 2013), non raggiunge forma compiuta, e guardando queste caotiche e affannose istallazioni di luci e suoni, i voli pindarici in tre dimensioni, le ripetitive serie di fotografie, è inevitabile non pensare alla semplice profondità di artisti come Modigliani e Casorati, o a quella di artisti più vicini nel tempo quali Ugo Riva, Alfredo Serri o Federico Bellomi, artisti in quanto capaci di maneggiare il pennello o lo scalpello, e caratterizzati da quell’essenzialità di tratto che infallibilmente tocca l’essenza dell’uomo.

Un’essenza dalla quale l’arte vista al Padiglione Centrale è fortemente lontana. Ci si chiede quindi se possa essere auspicabile liberarsi da questo eccesso di tecnologia che ha invasa l’arte, e tornare a promuovere la creatività “tradizionale”, quella che sapeva parlare all’osservatore in modo diretto, senza per questo perdere in profondità di contenuti.

In linea generale, a salvare il tenore di questa Biennale, sono i padiglioni nazionali - tutt’altro che superati come invece sedicenti esperti del settore tentavano di far notare quasi vent’anni fa, probabilmente al solo scopo di accendere un dibattito che regalasse loro cinque minuti di visibilità. Ognuno caratterizzato da una sua organicità, i padiglioni rappresentano comunque l’anima del Paese relativo; da notare però come i più interessanti, ad esempio quello azero, siano costretti a guardare al passato per trovare opere d’arte in grado di colpire pubblico e critica.

La domanda che ci si pone uscendo da questa Biennale, è se l’arte, nel prossimo futuro, sarà ancora in grado di comprendere e raccontare i cambiamenti della società, oppure se resterà soltanto un esercizio di stile a uso e consumo del mercato.

Niccolò Lucarelli

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