Bianciardi e quella vita ancora tropo agra

Una riflessione sulla crisi del libero arbitrio e del senso critico, nella società dominata dal consumismo e dalla televisione. Al Teatro Manzoni di Pistoia, Gianni Farina approfondisce il pensiero di Luciano Bianciardi, a oltre mezzo secolo dall’uscita del romanzo.

07 febbraio 2015 10:58
Bianciardi e quella vita ancora tropo agra

PISTOIA - Una voce in difesa della dignità umana, dignità che è la conditio sine qua non per essere individui liberi, dignità che si acquisisce e si mantiene solo esercitando il pensiero critico, del quale ogni singolo individuo dovrebbe essere capace. È su questo aspetto cruciale che Luciano Bianciardi - scrittore e intellettuale appartato e impegnato, oggi a torto dimenticato -, solleva dolorosi dubbi nelle sue numerose pagine. Alla sua opera, in particolare al romanzo La vita agra, rende omaggio lo spettacolo di Gianni Farina La vita agra del dottor F., caratterizzato da una regia che privilegia la dimensione interiore del protagonista, dove il dialogo ha la priorità sull’azione scenica, e l’intreccio con l’onirico indaga i timori di chi si sente oppresso.

Partendo dalla vicenda di un rivoluzionario determinato a vendicare i quarantatre minatori morti nella strage della miniera di Ribolla del 1954 - avvenuta per la mancata applicazione delle norme di sicurezza -, lo spettacolo sviscera le problematiche sociali inerenti all’Italia del “miracolo economico”, simboleggiate dalle frustranti, insormontabili barriere che il protagonista trova lungo il suo cammino rivoluzionario.

Si parte dalla fine, ovvero dalle spiazzanti luci di un salotto televisivo, dove il dottor F. è stato invitato a presentare il suo libro appena pubblicato. Ma dietro, si agita una storia di ideali delusi e di lotta per essere sé stesso, accompagnati da quel sapore agro che è metafora delle umiliazioni quotidiane. Nell'Italia degli anni Sessanta, esattamente come in quella degli anni Duemila.

Tre soli personaggi, un triangolo che riassume i rapporti di forza della società contemporanea: da una parte il “Sistema”, dall’altra i normali individui. In questo caso, il rivoluzionario Dottor F. e Anna, sua compagna di vita (Angelo Romagnoli e Claudia Pinzauti), e una mefistofelica padrona di casa (Rita Felicetti), che sorveglia attentamente le mosse della coppia d’inquilini, trasferitisi nella grande città - in questo caos Milano, ma potrebbe essere una qualsiasi della nostra alienante epoca urbana -, per compiere appunto l’attentato che dovrebbe rendere giustizia agli operai morti, e aprire la prima crepa nel cosiddetto “Sistema”, rivelando agli individui i meccanismi che li tengono in schiavitù; primo fra tutti, quello economico, che trasforma l’essere umano da essere pensante a essere consumante, assorbendo il suo intero reddito in spese che, esclusa quella per il cibo, appaiono puramente di coercizione: le tasse, e gli acquisti inutili, indotti dalla pubblicità, da quel bisogno artificiale per il quale si è convinti a comprare i beni più disparati.

Così distratti, chiusi in una logica di egoismo, si finisce per dimenticare il proprio libero arbitrio, per tralasciare l’etica, le relazioni sociali, la solidarietà fra individui, ed essere inconsapevoli vittime del consumismo.

Una sovrastruttura che il regista Gianni Farina immagina di natura diabolica, e l’apparenta a quel Faust di goethiana memoria che il dottor F. va quotidianamente traducendo, per guadagnare un misero salario. Un salario che, beffardamente, è così scarso che non gli permette di acquistare il necessario per compiere l’attentato; le 8.000 lire mensili se ne vanno per le utenze, il cibo, l’affitto. E proprio l’affitto è il problema più assillante, tanto che la padrona di casa riveste il ruolo simbolico della creatura faustiana che incarna il “Sistema”, il cui alito pestifero i due protagonisti sentono sempre sul collo.

Attraverso momenti onirici perfettamente incastonati nello spettacolo, quasi senza soluzione di continuità, il dottor F. dialoga con questa inquietante figura, una sorta di novello, diabolico Virgilio, che conduce l’apprendista rivoluzionario alla scoperta delle mene del “contratto sociale”, spiegandogli come l’essere umano abbia rinunciato alla sua individualità e sovranità, e la schiavitù del lavoro sia il mezzo più efficace per consumare il suo tempo e le sue energie.

Scenicamente, la divisione del palcoscenico in due spazi - la camera da letto, luogo della vita reale, soprattutto di quella intellettuale, contrapposta al salotto televisivo, simbolo del Sistema oppressivo -, ben rappresentano il tentativo dell’uomo di costruirsi un luogo intimo, dove rifugiarsi a pensare, ma anche a vivere, lontano dalle aberrazioni del Sistema. Ma anche questa possibilità sembra svanire, a causa delle continue “invasioni” della padrona di casa in cerca dell’affitto, simbolo di quella schiavitù economica che divora l’uomo.

Impossibilitato a compiere l’attentato, il dottor F. decide di scrivere una sorta di libro-denuncia del tragico incidente minerario; si ritrova così invischiato nei meccanismi del business editoriale, sotto le luci menzognere del salotto televisivo, sottoposto a sciocche domande di rito “che tanto piacciono agli spettatori”, e pressato per dare un sequel a quel primo volume. Morale: il Sistema assorbe, metabolizza, e rende commerciabile anche il libero pensiero, snaturato della sua essenza, circondato di suoni e luci e presentato come un qualsiasi prodotto consumistico.

Ma dalle menzognere luci della ribalta televisiva, seppur in modo sommesso, quasi umiliato, lo scrittore, riesce a lanciare il suo appello : per rompere questa schiavitù, l’unica via sembra essere il ritorno allo stato di natura, nel quale non esiste il denaro, non c’è mercato né indice produttivo, e ogni individuo vive del necessario, procurandoselo con il proprio onesto lavoro, in pieno autonomia e nel civile rispetto degli altri. Un’utopia, che solo poche menti libere desiderose di dignità.

hanno avuto il coraggio di pensare e proclamare. È scomodo, difficile, pericoloso essere liberi, ma, come scrisse Curzio Malaparte «il proprio dell’uomo non è essere liberi in libertà, ma liberi in una prigione». E di fatto, una prigione sembra essere la realtà creata dalla schiavitù del consumismo imposta dalle multinazionali - ben più potenti degli Stati -, ma che l’individuo potrebbe rompere se iniziasse compiere scelte consapevoli, rompendo lo schema mentale per il quale solo il denaro ha valore, in modo da tornare a un’economia di dono e di scambio, senza odi o disparità; in modo da non avvelenare l’esistenza con falsi desideri indotti, appagando invece quell’istinto sessuale più autentico che inclina al rispetto degli altri, alla soddisfazione di sé, e in definitiva alla pace.

Ma - è la pessimista conclusione -, per il momento l’appello è destinato a cadere nel vuoto, con il dottor F. di nuovo ingobbito sulla macchina da scrivere fino a tarda notte, pressato dall’urgenza di finire il nuovo libro,

dimentico persino della compagna, che giace delusa e sfinita al suo fianco, in un letto diventato improvvisamente freddo e silenzioso.

Teatro amaramente semivuoto, per uno spettacolo che invece avrebbe avuto molto da dire alla coscienze di un popolino abituato a trovare stampata sui giornali o gridata dalla televisione, l’opinione da adottare di volta in volta.

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