Servo di scena al Manzoni di Pistoia

Quando il teatro è una ragione di vita

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
08 marzo 2014 20:24
Servo di scena al Manzoni di Pistoia

PISTOIA- Il teatro è magia, riflessione, fantasia, crudeltà, e per un disguido del poetico può anche diventare una questione personale, frammento della propria vita che si fonde con l’arte. Un approccio decadente all’opera di Shakespeare, e al teatro in generale, attraverso il testamento spirituale di Sir Ronald, un applaudito interprete del Grande Bardo, una storia la sua, che corre in parallelo a quella di Norman, suo fedele assistente di scena. Un uomo che ha sempre vissuto di e per il teatro - al di fuori del quale si sentirebbe perduto -, e che adesso si trova a dover fronteggiare le sue debolezze.

Una sottile indagine esistenziale sulla dimensione che il teatro può assumere nella vita, al punto che diventa difficile distinguere fra la scena e la realtà. Calorosi e meritati applausi per Servo di scena, in cartellone fino a domenica al Teatro Manzoni di Pistoia, una pièce straordinariamente diretta e interpretata da Franco Branciaroli, nella parte del Sir, sostenuto da Tommaso Cardarelli nella parte del servo Norman. L’anziano attore, capocomico di una compagnia scivolata ormai in secondo piano, stanco e malato, si appresta a interpretare Re Lear, per quella che sarà la sua ultima fatica artistica.

Commedia e tragedia si intrecciano in quello che è un testamento spirituale di un attore in punto di morte, un bilancio della sua vita, fra delusioni affettive, solitudine, e gli allori raccolti fra il pubblico in tanti anni di carriera. Per buona parte della pièce, Branciaroli recita in costume di Re Lear, disilluso sovrano di un mondo teatrale ormai al tramonto. Una recitazione delicata, decadente, che dimostra tutto l’amore per la professione. Di grande impatto anche l’interpretazione di Cardarelli nei panni di Norman, il segretario factotum accostabile per arguzia all’Arlecchino di Goldoni, e per dedizione a Leporello, ombra di Don Giovanni, la cui codardia verso la vita compensa la spavalderia scenica del Sir.

Dopo averlo servito per tanti anni, viene amareggiato dall’esclusione nei ringraziamenti presenti nella biografia dell’attore, una mancanza che acuisce la sua sofferenza; pensava infatti di aver trovato, almeno in teatro, un rifugio dalla solitudine, ma l’incidente fa sì che si senta tradito da quel mondo che ha amato. Alla morte di Ronald, grande sarà il suo sconforto, alleggerito però da un aplomb tipicamente britannico, che rigira il livore in ironico disprezzo, sottolineato da una solenne ubriacatura.

Una parte della critica ha ravvisata l’eccessiva giovinezza di chi, nei fatti, dovrebbe essere un vecchio servitore, ma a nostro modesto avviso la scelta si rivela invece azzeccata per la bravura di Cardarelli nel dar vita a un personaggio problematico, solo e amareggiato, il cui brio giovanile richiama quello humour britannico che non sarebbe dispiaciuto a Oscar Wilde. Ad aumentare la tensione, il fatto che la pièce sia ambientata nel 1942, in pieno conflitto mondiale, la cui ferocia è riprodotta dagli effetti sonori del bombardamento aereo sulla città di Londra.

Nonostante la tragedia della guerra, la vita, anche culturale, prosegue stoicamente nella città martoriata. Che sia un riferimento ai tempi difficili che la cultura vive ancora oggi? Interessante, poi, indagare l’etimologia del nome Lear, per comprendere meglio sia la scelta di Shakespeare sia quella di Harwood; in tedesco, Leer significa vuoto, e il drammaturgo elisabettiano ne ha adattata la grafia alla pronuncia inglese, perché riflettesse metaforicamente il dramma esistenziale del personaggio.

Allo stesso modo, Sir e Norman portano dentro di sé un vuoto che soltanto il teatro riesce a colmare. La finzione dell’ipocrisia si accosta alla finzione scenica, dove accanto alla freddezza della moglie Milady, Sir trova l’inattesa passione di Madge, malinconica direttrice di scena; relazioni problematiche, più o meno impossibili, così come il tentativo di corteggiare la giovane Irene, attrice in erba della compagnia. Soltanto sulla scena Sir trova appagamento alla sua insoddisfazione esistenziale.

Lo stesso dicasi per il servo Norman, per il quale la morte del Sir è idealmente anche la sua, nonostante quella velata antipatia che a volte lo coglie per il suo “protetto”. Ben costruite anche le interpretazioni dei comprimari, Lisa Galantini/Milady e Melania Giglio/Madge in particolare; portano sulla scena due donne legate in modo differente a Ronald; la realtà di questi rapporti non è mai venuta alla luce, per ipocrisia o per timidezza. Nei confronti della moglie, Ronald si scopre solo, mentre nei confronti di Madge scopre un’ormai impossibile apertura.

Degna di nota la scenografia, articolata su due livelli; nel primo, entriamo idealmente nei camerini del teatro, le cui porte danneggiate lasciano intuire l’onda d’urto delle bombe. Qui, in queste stanze anguste, si svolge gran parte della vita della compagnia; la vestizione, il trucco, le confidenze, tutto aleggia fra queste mura. Il livello superiore, invece, riproduce il palcoscenico, dove la compagnia si appresta a recitare. Si assiste così a uno spaccato di teatro nel teatro, passando attraverso tutte le fasi di costruzione di uno spettacolo, in una prospettiva meccanicistica; ogni istante, un ingranaggio del complicato e affascinante congegno teatrale, fino all’esplosione palco, con gli effetti scenici ottenuti con “tecnologie” dell’epoca, come la riproduzione della tempesta tramite tamburi e lastre di ferro.

Un mondo che sta tramontando, di cui il Sir è idealmente l’ultimo depositario. Cinismo femminile, civetteria, disincanto, solitudine, amarezza, un grande falò delle vanità che è un omaggio alla grandezza del teatro, ad oggi rimasto uno dei pochissimi spazi di dibattito e riflessione socio-culturale, all’interno di una società sempre più in crisi. Il vuoto di Re Lear è oggi più che mai attuale.   di Niccolò Lucarelli

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