Re Lear al Teatro Manzoni

Nell’adattamento di Gianfranco Pedullà

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
08 dicembre 2013 21:47
Re Lear al Teatro Manzoni

PISTOIA- La tragica esperienza del vuoto che si crea attorno agli esseri umani, in una società senza pace, asservita alle logiche del potere, all’avidità e all’ambizione. Questo il fil rouge dello shakespeariano Re Lear, in scena al Teatro Manzoni nell’adattamento di Gianfranco Pedullà, e con un’inconsueta Giusi Merli nelle vesti del protagonista di quello che è considerato uno dei testi più intensi del Grande Bardo. Alla decisone di Lear di lasciare il potere e dividere il regno fra le tre figlie Goneril, Regana e Cordelia, si scatena l’avidità delle prime, che con l’adulazione ottengono la loro parte di regno.

Adulazione alla quale non cede Cordelia, ripudiata pertanto dal padre. Pur senza dote, va in sposa al Re di Francia. Intanto, ottenuti potere e ricchezza, Goneril e Regan raffreddano alquanto il loro presunto affetto per il padre, che diviene aperto disprezzo. Uno scontro fra generazioni che Shakespeare riproporrà anche ne La Tempesta, e che abbiamo visto nella scorsa stagione al Metastasio di Prato con l’allestimento di Valerio Binasco, dove era evidente il richiamo a un’Italietta gerontocratica e gerontofila, dove nessuno ha il coraggio e la voglia di lasciare spazio alle giovani generazioni.

Ma qui, la riflessione di Pedullà si spinge sui legami di solidarietà fra generazioni che si spezzano, lasciando spazio al solo individualismo. L’incertezza nella quale resta sospeso il finale della pièce, è dovuta al mancato passaggio dell’esperienza degli anziani ai giovani, di quell’insieme di valori etici che governava la società arcaica. In Italia manca proprio questo: un nuovo “patto fra generazioni” che permetta a questi ultimi di affacciarsi nel mondo degli adulti, potendo contare su chi sappia, e voglia, educarli e istradarli.

Sullo sfondo della vicenda principale, s’interseca quella del conte di Gloucester e i suoi due figli, Edgar e Edmund, con quest’ultimo, illegittimo, che per ambizione calunnia il fratellastro ottenendone l’esilio, e diviene oggetto del desiderio di Goneril e Regana. Alla guerra con la Francia, il cui esercito è stato mandato da Cordelia per ricollocare Lear sul trono, seguono una serie di congiure, e fra le vittime ci sarà lo stesso Glouster, accecato per falsa accusa di tradimento. Soltanto allora, come un novello Tiresia, sarà paradossalmente capace di vedere, comprendendo chi lo ha ingannato e chi invece è sempre stato al suo fianco.

Quando, sulla strada per Dover, incontrerà casualmente il figlio Edgar, questi non si farà riconoscere. Ma, travestito da Tom, il pazzo di Bedlam, (quasi un’anticipazione dell’Ariel de La Tempesta), è determinato a fare giustizia. Dopo la sconfitta dei francesi, Lear cade prigioniero con la figlia Cordelia, e Edmund ordina che essi siano condannati alla pena capitale. La resa dei conti finale sarà un macabro rituale di morte, molto simile all’Amleto, dove il duca di Albany accusa Edmund di tradimento e lo arresta, insieme alla moglie Goneril, sfidandolo a duello.

In quella, appare Edgar in armi - ma ancora travestito - che si scontra con Edmund e lo ferisce a morte. A questa vista, Goneril, che per gelosia ha già avvelenato Regan, si uccide. Edgar rivela a Edmund la propria identità e lo informa che il conte di Gloucester è appena deceduto. Nell’apprendere questo, e le morti di Goneril e Regan, Edmund riferisce di aver disposto l'uccisione di Lear e Cordelia, e dà ordine che l’esecuzione sia sospesa - forse il suo unico gesto di bontà in tutto il dramma.

Ma la sospensione arriva troppo tardi. Lear appare sulla scena portando fra le braccia il cadavere di Cordelia, dopo aver ucciso il servo che l’ha impiccata, poi muore anch’egli di dolore. Sebbene ispiratosi alla mitologia anglosassone, e a un fatto storico realmente accaduto, nel cercare il nome del protagonista, Shakespeare si rifà anche a leer, una parola tedesca che significa vuoto. E vuota è l’esistenza di un uomo privato di tutto, dal regno agli affetti, persino del senno, che muore solitario in una landa desertica.

In senso più ampio, è vuota l’esistenza di tutti gli uomini, imprigionati nel buio di quel Seicento dilaniato dalle guerre di religione seguite alla Controriforma, e dall’instabilità politica di un’Europa ancora in fieri. Shakespeare conferma la sua vocazione di cantore degli aspetti più oscuri dell’animo umano, e Gianfranco Pedullà allestisce uno spettacolo concettualmente barocco, intriso di oscurità e di urla, follia, bestialità. La suggestiva scenografia, costituita da quelle che sembrano vele lacerate, suggerisce appunto le lacerazioni degli affetti, e della solidarietà fra generazioni. Molto intensa la scena della guerra, della quale si avvertono i clangori delle spade, il nitrire dei cavalli, le urla dei guerrieri, e con gli attori che corrono forsennatamente nella platea semibuia.

La regia lascia agli attori una certa libertà di pronuncia, non curandosi della pulizia della dizione, e ne esce fuori una pièce che tocca il pubblico per la sua spontaneità, che pure si interseca con la non immediata lettura dei significati di fondo. Una bella prova corale di tutta la troupe, con, sugli scudi, un’intensa Giusi Merli che dà voce a un Re Lear quasi stregonesco, la cui arcaica follia dà la cifra di una società che le giovani generazioni sono determinate a soppiantare.

Lorella Serni e Silvia Frasson sono rispettivamente Goneril e Regana, malvagie e dispotiche quanto belle e ambiziose, che alternano pose romantiche (e interessate), a scoppi di femminile avidità, fasciate in suggestivi abiti neri ispirati alla moda dark. Da parte sua, Gianfranco Quero dà vita a un drammatico Glouster, costretto ad affrontare laceranti prove emotive, e che, nella sua cecità, sembra essere l’unico che riesce a vedere le conseguenze di quanto è accaduto. Alla chiusura del sipario, meritato successo di pubblico per uno spettacolo illuminante sulla caduta dell’umanità. Niccolò Lucarelli

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