Alla Pergola, la tagliente ironia di Oscar Wilde

Fino a domenica, nell'allestimento di Geppy Gleijeses con Lucia Poli, Valeria Contadino e Giordana Morandini

02 aprile 2014 11:31
Alla Pergola, la tagliente ironia di Oscar Wilde

FIRENZE - Torna alla Pergola il discusso genio di Oscar Wilde, con L’importanza di chiamarsi Ernesto, per la regia di Geppy Gleijeses che allestisce una commedia degli equivoci che satireggia contro l'ipocrisia della società vittoriana, e la scialba letteratura d'appendice che, all'epoca, costituiva quella che oggi è la televisione: un ricettacolo di sciocchezze più o meno meditate, di cui buona parte del popolo britannico, di allora, scoprì di non poter fare a meno.

Come scrive lo stesso Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray, mentire per costruirsi una doppia identità è un mezzo ingegnoso per movimentare e rendere interessante la propria esistenza. Un aforisma che ha il sapore del paradosso, ma che, a fronte della cialtroneria, della piattezza e della mancanza d'immaginazione che caratterizzano buona parte della società contemporanea, assume un carattere di scomoda verità. Per ampliare la considerazione, torniamo con la mente a Giorgio Manganelli, raffinato dandy della vecchia scuola, che paragonò il matrimonio alla morte, descrivendolo "una cosa stupida", in quanto "una cosa che fanno tutti". Conclusione paradossale, ma che, per contrasto, sottolinea l’intelligenza della commedia di Wilde, dove il matrimonio è visto come un passatempo, un esercizio di stile da non prendere troppo sul serio, ma comunque utile per fare conoscenze.

Oltre a considerazioni di questo genere, la commedia scardina il mito vittoriano dell'apparenza, sin dal gioco di parole del titolo, incentrato sull'ambiguità fonica delle parole Ernest e earnest, che, pronunciate allo stesso modo, indicano sia il nome proprio sia l'aggettivo "onesto". Nessuno dei due protagonisti, Algernon e Jack, dissoluti scapoli che vivono per il piacere e trafiggono la vita con i loro epigrammi, ha le suddette caratteristiche. Eppure, non esitano a inventarsi una falsa identità per conquistare l'amore di Cecily e Gwendolen, ricche fanciulle di buona famiglia, entrambe attratte dal fascino del nome Ernest. Attraverso una trama ricca di colpi di scena, equivoci, taglienti aforismi e considerazioni sulle convenzioni sociali, Wilde traccia un impietoso e insieme divertito ritratto di una società, quella vittoriana, dove soltanto l'intraprendenza salva l'uomo di mondo dall'ennui causato dal giogo dell'ipocrisia.

A quest’intelligente impianto drammaturgico, la scialba regia di Gleijeses aggiunge ben poco, e lo spettacolo si regge sull’arguzia e la causticità del testo, trasportate su uno spazio scenico elegante e suggestivo, che ricrea almeno in parte quell’atmosfera vittoriana che gli attori non sempre riescono ad afferrare. Scenografia che nel primo atto riproduce una raffinata living room dell’aristocrazia londinese, mentre nel secondo e nel terzo, propone un suggestivo e misterioso giardino di campagna, teatro degli improbabili colpi di scena che muovono lo spettacolo.

L’impressione è che la raffinata commedia di Wilde sia trasposta con lo spirito della farsa, o al più, della commedia dell’arte, un approccio che, per quanto gradito al pubblico, manca completamente dell’attenzione psicologica necessaria a riprodurre quell’atmosfera pensosa, cinica e annoiata insieme, tipica del sentire anglosassone. Un approccio, quello di Gleijeses, forse troppo "mediterraneo", e che solo in parte riesce a riscattare, dando vita a un Jack Worthing passionale e disilluso insieme, ma non abbastanza cinico, anzi a tratti persino querulo.

Imbarazzante l’interpretazione di Marianella Bargilli, la cui dizione palesemente artificiosa e a tratti anche forzata, toglie ogni credibilità a un personaggio, Algernon, che pure, nel testo originale, manifesta una personalità complessa e paradossale; Bargilli risulta completamente fuori posto, e forse, a beneficio della qualità degli spettacoli teatrali, potrebbe essere opportuno lasciare da parte le tante comparse del piccolo schermo subito tramontate, cui il qualunquismo dilagante attribuisce comunque, in virtù di un quarto d’ora sotto i riflettori, capacità artistiche per le quali, invece, occorrono applicazione, cultura, e in definitiva un talento innato.

Talento che invece contraddistingue Lucia Poli, nelle sontuose vesti di Lady Bracknell, zia di Gwendolen, (una sorta di alter ego della Regina Vittoria), donna pratica e sensibile alla ricchezza altrui, ma dotata di un fine senso dell'ironia che ne fa un personaggio convincente; infatti, l'attrice riesce a esprimere al meglio quel senso del comico legato alla sfera psicologica che contraddistingue Oscar Wilde. Anche Valeria Contadino e Giordana Morandini, che interpretano rispettivamente Gwendolen e Cecily, portano sul palco con intelligenza la "frivolezza" dei personaggi femminili di Wilde, che "non hanno niente da dire, ma lo dicono con molta grazia".

Nonostante la loro presenza, lo spettacolo convince solo a metà. Il pubblico, comunque, applaude, e per diversi motivi: in primo luogo, il testo è gradevole e intelligente, e nemmeno la peggior regia riuscirebbe a renderlo completamente repulsivo.  In secondo luogo, Wilde è autore poco conosciuto, anche se molto citato (più o meno a proposito), e in sala difficilmente ci si accorge che buona della sua arguzia, e della sottile analisi psicologica che ne consegue, è spesso assente.

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