La Reputazione del Giappone: intervista a Nanako Yamamori

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
31 maggio 2009 22:06
La Reputazione del Giappone: intervista a Nanako Yamamori

“Del Giappone gli Italiani apprezzano la capacità di innovare nel design come nell'architettura, ma in questo ambito i Giapponesi si sono distinti dal dopoguerra grazie alle opportunità di creare che hanno avuto, e che qui in Italia sono mancate, infatti quando la possibilità di innovare si è presentata davvero, penso al caso del progetto di Isozaki a Firenze, la paura del nuovo ha prevalso” E' l'opinione di Nanako Yamamori, giornalista giapponese in Italia, corrispondente di una decina di testate giapponesi e coautrice lo scorso anno del volume “La reputazione del Giappone”, che pubblicato da una delle più prestigiose case editrici nipponiche, ha già venduto 40.000 copie.

La Yamamori è laureata in lingue all'Università di Bristol, ma adora l'Italia e risiede attualmente a Milano in qualità di corrispondente. Nove da Firenze l'ha intervistata nei giorni scorsi, di passaggio da Firenze, dove ha anche soggiornato in passato.
Che cosa attira i suoi connazionali in una città come Firenze?
“I Giapponesi sono richiamati maggiormente dal fascino dell'alimentazione e dalla cucina, dall'artigianato e dalla Lirica. E' finito invece, con l'avvento dell'Euro, il turismo dello shopping che imperversò sino agli anni '90, mentre permane, ben inteso, l'interesse per l'abbigliamento e la moda italiana.

Assai meno prevalente è l'attrazione per l'arte e la cultura rispetto ad altri turisti, penso ad esempio agli Statunitensi, in particolare i tanti studenti che vengono a Firenze”.
Ma anche gli Italiani sono affascinati dal Giappone, non trova?
“In un certo senso i due paesi esprimono modelli di valore contrapposti: mi riferisco a dicotomie come nuovo/vecchio, sia nella cultura che in altre espressioni sociali come la cucina. Comunque quello che gli Italiani esaltano quando parlano con me è il minimalismo giapponese, la capacità di contaminazione con culture altre, direi quasi proprio quel che manca in Italia, cioè la difficoltà di integrare e di accettare le novità”.
Dunque il progetto di Isozaki era troppo innovativo per una città conservatrice come Firenze?
“Non sono io a dirlo, ma le statistiche dei ricercatori internazionali.

Qual è la percentuale di italiani che fanno lo stesso lavoro del padre? E che dire della prevalenza delle piccole imprese? Il paese oggi è chiamato alla sfida della globalizzazione che valorizza il nuovo e i talenti, come il vostro paese ha saputo fare bene nel settore moda. E, chiariamo, in generale trovo l'Italia molto cambiata negli ultimi anni, anche grazie all'immigrazione”.
E il rapporto tra italiani e giapponesi è cambiato?
“I due paesi si conoscono meglio. Sono diffusi e apprezzati l'arte, il cinema, la letteratura (grazie anche alle migliorate traduzioni), ed espressioni della modernità come i fumetti e la musica pop, ma si è verificato anche un fenomeno di esportazione religiosa, con il Buddismo in Italia e il Cattolicesimo in Giappone”.
Cosa dovremmo fare a Firenze per favorire il soggiorno dei viaggiatori giapponesi?
“In particolare rendere più facile la vita quotidiana e gli appoggi pratici.

Ci sarebbe bisogno di migliori mezzi pubblici di trasporto, perché i giapponesi guidano a destra e qui a Firenze hanno difficoltà ad esempio a comprare un biglietto dell'autobus, o a utilizzare i pochi taxi, che non si trovano direttamente in strada. Ma tutti i servizi pubblici sono particolarmente complicati: penso alla necessità di disporre di un codice fiscale anche per effettuare qualche spedizione postale. E questo non è un problema specificamente per i giapponesi, ma credo per tutti i turisti (salta a gli occhi nel giro di pochi giorni), come pure per i residenti”.
E come scavalcare la radicale differenza linguistica?
“Questo è un aspetto molto delicato per quanto concerne le attività commerciali.

Ma nelle lingue gli Italiani sono più avanti dei giapponesi. In Giappone è raro trovare persone che conoscono più di una lingua straniera, e in genere si impara l'inglese, mentre chi conosce l'italiano difficilmente conosce anche l'inglese. Piuttosto in Italia raramente alla conoscenza di una lingua straniera corrisponde anche la conoscenza della relativa cultura”.
Nicola Novelli

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