Cento romanzi in una nuova edizione per il sessantesimo anniversario dello Strega

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
03 luglio 2007 13:09
Cento romanzi in una nuova edizione per il sessantesimo anniversario dello Strega

Sarà edito dalla UTET, in collaborazione con l'associazione Goffredo Bellonci, il volume "primo tesoro della lingua italiana letteraria", per il sessantesimo anniversario del premio Strega. Un'opera che sarà presentata a Roma, nella sede del premio Strega, il prossimo 4 luglio. Nell'occasione, oltre a presentare il libro, illustri linguisti e scrittori del calibro di Tullio De Mauro, Alberto Arbasino, Alberto Asor Rosa e Luca Serianni daranno voce ad un'ampia presentazione: frutto di un'autentica ricerca sulla lingua e la sua evoluzione.

Dibattito che per l'occasione si è aperto con qualche giorno d'anticipo. Lo scopo della neo edizione critica altro non è che una disputa sull'evoluzione letteraria e giornalistica verificatasi negli ultimi cinquanta anni. Un'evoluzione strettamente pertinente all'efficienza della lingua stessa, ossia della sua fruibilità, soprattutto per quanto concerne il lettore meno preparato: vale a dire quella tipologia di lettore di cultura medio bassa. Secondo quanto emerge dalla ricerca effettuata dagli esimi linguisti, risulta che l'idioma nazionale, nella forma scritta, abbia subito un'evoluzione notevole diventando sempre più accessibile alle capacità di tutti.

Scrittura, quindi, che non riguarda solo ed esclusivamente la letteratura (nella fattispecie la narrativa) ma anche il giornalismo e la saggistica, vale a dire quella forma di letteratura documentaria e cronistica. La raccolta è formata da quaranta romanzi vincitori dello Strega più altri sessanta che, se pur esclusi dal prestigioso premio, hanno concorso a Villa Giulia. Gli autori delle opere considerate sono tutti famosi al di là degli aspetti biografici, siano loro viventi oppure scomparsi, siano loro simili o distanti per natura letteraria e giornalistica.

Tra gli autori esaminati compaiono, in ordine sparso di tempo e di luogo, prestigiosi nomi come: Raffaele La Capria, Vincenzo Consolo, Giovanni Testori, Carlo Levi, Primo Levi, Carlo Emilio Gadda, Giovanni Veronesi, Paolo Volponi, Cesare Pavese, Tommaso Landolfi, Susanna Tamaro, solo per citarne alcuni. Secondo quanto emerge, la narrativa e il giornalismo rispetto alla saggistica fanno un uso della lingua scritta, al di là dello stile e dei contenuti, assai diretto, meno distante dall'idioma parlato.

Un punto a favore del lettore, soprattutto quello di media e bassa cultura, che non deve faticare molto per comprenderne il significato. Periodi corti, termini comuni, e una chiara sintassi sembrano primeggiare nei testi di narrativa e di cronaca. Allo stesso modo, sempre vivo, se pur talvolta in via di sperimentazione, è il dialetto, che nella narrativa è usato in alchimia con l'italiano, tanto da creare un ibridismo linguistico di facile comprensione. Lontana da questa logica sembra essere la saggistica, sia essa letteraria, giuridica o scientifica, nella quale alberga tuttora uno stile linguistico lontano dal sentire comune, che Italo Calvino definiva "terrore semantico".

Un linguaggio distante dall'idioma parlato che spesso ha allontanato il lettore dalla letteratura e dalla cultura. Tuttavia, il compimento letterario della lingua, per quanto concerne l'attualità, sembra non essere ancora del tutto maturo. Lo stesso De Mauro sostiene che un certo "letterariese" è pur sempre presente. Il dibattito che vedrà come protagonisti puristi e partigiani dell'italiano scritto e letterario, vuole essere ancora una volta una disputa sulle potenzialità della letteratura, e perché no del giornalismo.

Peculiarità che devono essere, secondo un'ottica disinteressata, intese in senso generale mirando al rapporto tra la lingua e lo stile, lo stile e le masse, vale a dire in relazione al potenziale e ipotetico bacino di lettori. Una realtà in Italia molto bassa rispetto alle altre nazioni europee, con la quale la scrittura deve fare, prima o poi, i conti. Intanto perché non esiste più il concetto di massa e di artigiano della lingua; questo infatti è sostituito dalle parole: moltitudine e autore.

Due categorie che non vivono in emisferi separati, ma in un medesimo contesto in un'epoca di grande e violenta vicissitudine: l'età della globalizzazione. Tant'è che la colpa di una mancata culturizzazione da parte di colui che usufruisce della scrittura, non è più accollabile solo a tale individuo. Oggi, più di ieri, la letteratura e la scrittura in genere per essere compresa deve calarsi nel linguaggio comune, nella quotidianità. Deve avere una duplice funzione: quella di testimoniare in senso oggettivo e quella di raccontare; vale a dire di affabulare colui che legge.

Un impegno di stile che, assieme al linguaggio e al contenuto, deve essere il più possibile magmatico, in altre parole: un'alchimia di elementi della realtà circostante. Insomma, la scrittura deve abbassarsi alla moltitudine allo scopo che il lettore s'alzi ad un livello assai prossimo al significato della parola scritta. Compito, da parte di chi scrive, a cominciare dal singolo giornalista, non certo facile che deve portare a compimento la lingua scritta secondo l'età a lui contemporanea. Un linguaggio diretto e uno stile elementare, assai chiaro, sono da tempo sinonimi di maturità letteraria, di successo editoriale, di globalizzazione e culturizzazione per la moltitudine.

Sperimento che già a partire dagli anni sessanta del secolo scorso fu praticato da certi scrittori avanguardisti. Insomma, solo una scrittura reale, non ricercata, colloquiale, diretta, lontana da stereotipi eruditi può vincere la battaglia? Una scrittura di grado zero, come direbbe Rolan Barthes, che sposi la realtà oggettivamente nelle sue più complete potenzialità. Un compito che deve essere inteso in relazione agli strumenti comunicativi come quello dei media, della Tv, dei cellulari, dei personal computer.

Insomma, si tratta di una responsabilità "manzoniana" che non deve esaurirsi "sciacquando i panni in Arno"ma che deve andare oltre per coesistere con il mondo e le moltitudini. Per finire, quindi, la parola chiave potrebbe essere essenzialismo. Niente è più necessario di ciò che elementarmente serve. Solo così la scrittura può essere al servizio del lettore, altrimenti il rischio della posta in gioco è assai alto; sarebbe come scrivere sulle acque e come si sa: una civiltà senza scrittura è un cadavere che stenta a vivere.

Iuri Lombardi

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